AFGHANISTAN. UNA GUERRA NASCOSTA

AFGHANISTAN. UNA GUERRA NASCOSTA

Humayun Azizi, governatore della regione di Kandahar

Humayun Azizi, governatore della regione di Kandahar

L’Afghanistan è per ora caduto nel dimenticatoio come se tutto fosse stato lì risolto. Invece continuano attentati, presenza massiccia di militari stranieri, faide interne, voglia di rivedere la Costituzione considerata troppo ‘occidentale’. Dopo tanti anni…nulla di fatto…e tutto instabile.

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini                                           

Il rapporto dell’Agenzia Pajhwok elenca 5.887 persone uccise e 4.410 ferite in 777 attacchi realizzati negli ultimi cinque mesi del 2016. Metà di questi attacchi sono avvenuti in solo sei delle 34 province afghane: Nangarhar, Helmand, Kandahar, Faryab, Kabul e Farah.

Il rapporto segnala che la maggior parte delle vittime sono state causate da scontri ravvicinati e da bombardamenti aerei di artiglieria, quindi i morti sono causati in parte dalla guerriglia talebana e in parte dall’antiguerriglia a guida USA.

Dal suo canto, “Analisi Difesa” documenta che l’escalation delle operazioni talebane costringono le forze alleate dell’operazione “Resolute Support”, che dovrebbero solo addestrare e assistere le forze di sicurezza afghane, a operare in prima linea in appoggio ai soldati afghani.

Sempre “Analisi Difesa” precisa che già nell’ottobre scorso gli italiani, che schierano ancora quasi un migliaio di militari ad Herat con forze speciali ed elicotteri, sono intervenuti in due controffensive per alleggerire la pressione talebana:

– prima su Farah City, capoluogo di una delle più importanti province per la produzione di oppio;

– poi per liberare dai talebani le tre province dell’Afghanistan Occidentale dove il ritiro delle  forze alleate ISAF, la NATO, ha consentito agli insorti di riguadagnare terreno in molte province.

Inoltre, sempre gravissima è la situazione anche a Helmand, a sud di Farah, dove in primavera sarà schierato di nuovo un reparto di Marines americani, la “Tash Force Southwest”, guidata dal generale Roger B. Turner Jr. secondo il quale “si tratta di una missione ad alto rischio in cui i marines dovranno essere in grado di far fronte a una vasta gamma di minacce”.

In merito, lo stesso sottosegretario di Stato americano per gli Affari politici, Thomas Shannon, in visita a Kabul, ha dichiarato che “l’impegno USA in Afghanistan non terminerà il 20 gennaio”.

Cosa sta succedendo?

In questo momento in Afghanistan ci sono 12 mila militari alleati, di cui 8.400 statunitensi, 950 italiani, 1.000 tedeschi, inseriti per lo più nell’operazione NATO “Resolute Support”, mentre il 30% delle forze americane, soprattutto le forze aeree da attacco, conducono operazioni contro talebani, al Qaeda e la branca afghana di Daesh.

Il ritorno dei militari alleati in prima linea conferma il fallimento del programma di ritiro voluto dal presidente uscente sostenuto per anni dall’ipotesi – rivelatasi errata – della capacità delle forze afghane di affrontare da soli i talebani in battaglia, replicando, con il ritiro affrettato, l’errore commesso in Iraq nel 2011, con le note conseguenze sul campo di battaglia che ha visto l’ascesa di Daesh, come sta accadendo in Afghanistan.

E, di fatto, quando, prima delle elezioni del novembre 2106, il presidente uscente ha realizzato che non avrebbe ottenuto i risultati sperati, ha riproposto la stessa strategia di prima: dividere i talebani per indebolirli ampliando i margini di manovra dei soldati americani e affidandosi ancora più di raid aerei.

Ecco che in attesa di capire le intenzioni del 45° presidente degli USA, eletto, i talebani il 10 gennaio hanno realizzato ben tre letali attacchi.

Il primo, la mattina a Lashkargah, capoluogo della provincia meridionale dell’Helmand, causando sette morti tra agenti dell’intelligence locale.

Nel pomeriggio, utilizzando il modulo dell’attentatore suicida – che apre l’azione – seguito dall’auto imbottita di esplosivo, colpiscono a Kabul un autobus che percorreva il rettilineo che conduce al vecchio Palazzo presidenziale in ricostruzione.

L’autobus è attaccato nei pressi del nuovo Parlamento e non lontano dall’Università americana causando almeno trenta morti, tra cui un agente dell’intelligence, 4 poliziotti e personale amministrativo del Parlamento, e ne feriscono oltre 70.

In serata, le ultime esplosioni avvengono nel ‘compound’ del governatore di Kandahar, ritenuto uno dei luoghi più protetti.

Al momento dell’esplosione era in corso un incontro fra il governatore, Humayun Azizi, e Jumat-al-Kaabi, ambasciatore degli Emirati Arabi in Afghanistan, accompagnato da una delegazione.

Il bilancio è di almeno sette morti, incluse alcune guardie del corpo e diplomatici degli Emirati, numerosi feriti tra i quali il governatore e l’ambasciatore, ricoverati in ospedali.

Rimane illeso il generale Abdul Raziq, capo della Polizia di Kandahar, che nelle ultime settimane aveva invitato i talebani a ritirarsi dal Pakistan per trasferirsi in un’area di sicurezza creata dal governo in modo da ridurre le interferenze di governi e attori esteri sul già debole processo di pace.

In merito, i talebani, nel corso dei numerosi tentativi per la pace hanno sempre chiesto:

  • ritiro degli USA e degli altri stranieri dal Paese;
  • rimozione dei loro rappresentanti dalla lista nera compilata dalle Nazioni Unite;
  • fine dei raid aerei notturni da parte dei militari afghani e statunitensi;
  • riscrittura della Costituzione, inaccettabile perché copiata dal diritto occidentale sotto minaccia degli aerei B52 statunitensi;
  • rifiuto dell’interferenza straniera nei colloqui di pace, con chiara allusione al Pakistan, sempre proposto dal presidente Ashraf Ghani Ahmadzai, d’etnia pashtun.

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Il Presidente dell'Afghanistan, Ashraf Ghani Ahmadzai

Il Presidente dell’Afghanistan, Ashraf Ghani Ahmadzai

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