IL CONFLITTO ISRAELO-PALESTINESE 2. 15 GENNAIO 2017: CONFERENZA DI PARIGI.

IL CONFLITTO ISRAELO-PALESTINESE 2. 15 GENNAIO 2017: CONFERENZA DI PARIGI.

L'ambasciatore israeliano all'ONU, Danny Danon

L’ambasciatore israeliano all’ONU, Danny Danon.

Fra tre giorni si apre a Parigi una conferenza sul conflitto israelo-palestinese. La situazione attuale è ben illustrata dall’articolo seguente. Continuando così non si vedono margini per un accordo….

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini                         

Il 23 dicembre scorso il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, per la prima volta nella storia con l’astensione degli USA, approva la Risoluzione 2334/16 che condanna gli insediamenti coloniali israeliani nei Territori Palestinesi Occupati perché violano il diritto internazionale.

Negli stessi termini si era pronunciato nel 1980 con la Risoluzione 465 in merito all’illegalità degli insediamenti nei TPO dopo la guerra del 1967.

La reazione dei vertici israeliani è furiosa.

L’ambasciatore di Tel Aviv all’ONU, Danny Danon, dichiara che “né il Consiglio di Sicurezza dell’ONU né l’Unesco possono spezzare il legame fra il popolo di Israele e la terra di Israele” aggiungendo che “la nuova amministrazione americana e il nuovo segretario generale dell’ONU apriranno una nuova era in termini di relazioni dell’ONU con Israele”.

Prima dell’approvazione della Risoluzione il premier Netanyahu riesce a bloccare il voto e a frenare l’amministrazione ancora guidata dal presidente uscente Obama con il risultato di ottenere l’immediato cedimento del presidente egiziano Sisi – che era stato uno dei promotori del progetto di Risoluzione – e il sostegno del presidente entrante Trump, intervenuto per congelare il voto.

Il premier israeliano inoltre convoca e rimprovera gli ambasciatori presenti degli Stati che hanno votato a favore della Risoluzione – Angola, Cina, Egitto, Francia, Giappone, Gran Bretagna, Russia, Spagna, Ucraina e Uruguay – mettendo in chiaro che Israele non la rispetterà.

Il ministro della difesa, Lieberman, dichiara che la conferenza di pace di Parigi il prossimo 15 gennaio è “un tribunale contro Israele…. non una conferenza di pace ….ma qualcosa il cui scopo è danneggiare la sicurezza di Israele e la sua reputazione” e quindi annuncia che non vi parteciperà perché “è un incontro di antisemiti”.

Nel frattempo, il comune di Gerusalemme dà il via al progetto per la costruzione di 618 case per coloni di cui 140 a Pisgat Zeev, 262 a Ramat Shlomo e 216 a Ramot e il quotidiano “Israel HaYom”, vicino al premier, comunica che sono pronti progetti edili per 5.600 appartamenti da realizzare a Gerusalemme Est nelle colonie israeliane.

Il presidente israeliano Reuven Rivlin dichiara che la Risoluzione del C.d.S. “è uno schiaffo alla pace e alla verità”

In realtà, la Risoluzione 2334/16 riafferma la verità già esposta da decine di Risoluzioni fra le quali le seguenti che prevedono:

  • 194/1948, diritto al rientro dei profughi palestinesi in Palestina, oltre al risarcimento per le perdite di terra e casa e compensi per quanti non intendevano esercitare tale diritto;
  • 242 e 338, obbligo per Israele di ritirarsi dai Territori Occupati nella guerra dei 6 giorni (giugno 1967) e dalle alture del Golan siriano.

La Ris. 2334/2016 prevede la possibilità d’intervento della Corte Penale Internazionale, davanti alla quale potrebbero essere condotti i responsabili della politica coloniale israeliana ma non è stata approvata nel contesto del capitolo 7 della Carta dell’ ONU che avrebbe aperto la strada a un dibattito su eventuali sanzioni economiche contro Israele.

In altri termini, Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est sono Territori Occupati militarmente da 1967 da Israele, che come potenza occupante non può insediarvi la sua popolazione civile.

Firmando gli Accordi di Oslo del 1993 Israele ha accettato di definire “in negoziati finali” con i palestinesi lo status di Gerusalemme, riconoscendo che per il diritto internazionale non ha valore la sua decisione unilaterale, presa con un voto della Knesset 35 anni fa, di annettersi e proclamare sua capitale l’intera città, incluso il settore arabo.

Lo stesso vale per le alture del Golan, annesse unilateralmente ma che restano un territorio siriano occupato.

Indietro nel tempo, i fondatori dello Stato d’Israele accettarono il piano di spartizione della Palestina storica del 1947 che non includeva nello Stato ebraico Gerusalemme, la Cisgiordania e Gaza e altre importanti porzioni di Palestina.

Gli eventi successivi sono il frutto di guerre, conflitti armati e fatti creati sul terreno, come fra gli altri, l’occupazione e annessione del Golan siriano del 1967 e, dal 2002 in avanti, la costruzione del “muro di sicurezza” di 750 km al di là della linea verde – quella dell’armistizio del 1948 – e all’interno di terre palestinesi.

Tutte iniziative unilaterali che non dipendono da negoziati e accordi fra le parti, come il 16 novembre 2004 stabilisce la Corte Internazionale di Giustizia, ai sensi della Quarta Convenzione di Ginevra, delle Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e dell’Assemblea Generale ONU nonché dell’articolo 94 della Carta, viola il diritto internazionale nel corso del dibattito concluso con 14 voti favorevoli e uno contrario del giudice americano Thomas Buerghental.

Per maggiore precisione dei fatti, è necessario esporre sinteticamente gli eventi utilizzando ricerche e studi provenienti da parte israeliana: il professore Oren Yiftachel, insegnante nel Negev e già copresidente dell’organizzazione israeliana B’Tselem, ed esponenti della stessa organizzazione.

Si parte dal concetto giuridico di “terra nullius”, utilizzato durante il periodo coloniale per definire terre senza diritti di sovranità o proprietà come “terre di nessuno” mentre in realtà vi vivevano e lavoravano autoctoni.

Per secoli questa menzogna ha fornito agli europei una giustificazione legale per strappare il controllo dei territori e allontanare gli autoctoni nel mondo intero.

Questo concetto – finalmente reso nullo e consolidatosi solo 150 anni fa in Inghilterra – affermava, come su detto, che “le terre dei popoli nativi di America, Africa, Asia e Australia che non erano formalmente accatastate o gestite in modo moderno” erano da considerarsi “prive” di diritti legali.

In altri termini, lo strumento che permetteva ai nuovi arrivati di esercitare il controllo non solo con la violenza ma anche con la legge, quella dell’occupante. In pratica, l’invasore diviene anche legislatore, garantiva che l’accaparramento delle terre a danno dei nativi sarebbe rimasto coperto da un ingannevole velo di “legalità”.

Il concetto di “terra nullius” ha comunque operato nel mondo fino al xx° secolo inoltrato quando è emersa una legislazione opposta che sostiene i diritti umani e riconosce quelli dei popoli indigeni e gradualmente ammesso che anche le culture e i popoli colonizzati hanno legittimi sistemi di leggi, di proprietà e di governo.
Due esempi in merito:

  • il caso “Mabo” del 1992, quando la Corte Suprema australiana ribalta il concetto giuridico di “terra nullius” e molti altri Paesi hanno fatto altrettanto;
  • la dichiarazione ONU sui diritti del popoli indigeni del 2007 delinea le nuove norme internazionali che rispettano le leggi consuetudinarie e proibiscono l’appropriazione di terre e risorse dei nativi o il trasferimento forzato di comunità autoctone.

Al contrario, alla fine di dicembre 2016, il disegno di legge israeliano, noto come “Legge della Regolarizzazione”, intende legalizzare persino “avamposti” – non autorizzati e illegittimi anche per Israele – in Cisgiordania. Disegno di legge che riprende il concetto della “terra nullius”, a detrimento dell’ormai consolidata legislazione internazionale sul punto.

In altri termini, il disegno di legge è consustanziale al sistema iniziato 70 anni addietro, attraverso il quale le terre palestinesi sono state trasferite agli ebrei con mezzi che “legalizzano” l’esproprio da parte dello Stato occupante.

La messa in pratica dell’approccio della “terra nullius” è iniziata nel 1948 e si è aggravata nel 1967 quando l’esproprio a danno di singoli individui ha riguardato le collettività, impedendo la realizzazione di uno Stato palestinese.

I metodi per trasformare in ebraiche le terre palestinesi in Cisgiordania e non solo sono dettagliati in un recente rapporto di B’Tselem, intitolato “Espellere e sfruttare”, che documenta nei particolari la vicenda di terreni attorno a tre località palestinesi nei pressi di Nablus: Azmut, Deir al-Khatabe Salem, dove vasti appezzamenti di terre dei villaggi sono stati progressivamente trasferiti a ebrei attraverso varie misure includenti la creazione di “aree di sicurezza”, strade asfaltate ad accesso limitato, costituzione di “avamposti” illegali, registrazione come proprietà abbandonate e destinazione di territori a riserve naturali.

Nella zona centro-settentrionale di Israele, a maggioranza palestinese, e soprattutto nel Negev ogni arabo può testimoniare che metodi simili sono stati utilizzati anche là perché lo Stato ha spesso dichiarato terre “vuote” o “abbandonate” o “morte” o “necessarie per finalità pubbliche ebraiche” e ha trasferito la proprietà ad ebrei.

Lo studio di B’Tselem del 2012 intitolato “Sotto le mentite spoglie della legalità”, documenta i modi in cui Israele ha manipolato le leggi ottomane e inglesi per trasferire terre private palestinesi in mani israeliane ed ebraiche.

Il rapporto dimostra che Israele non solo ha gravemente violato le leggi internazionali, ma anche quelle nazionali, stravolgendo le norme fondiarie ottomane e britanniche, nonostante l’obbligo per lo Stato di conservare ogni norma legale già esistente nelle regioni occupate.

Il processo distorto in Cisgiordania si basa sul fatto di dichiarare che le terre incolte nelle zone agricole dei villaggi possono essere dichiarate terre statali nonostante, secondo il diritto ottimano, ognuna di tali terre non coltivate debba essere prima offerta ai precedenti proprietari, poi al villaggio di appartenenza o essere venduta con un’asta pubblica.

Israele ha ignorato le clausole più scomode del diritto ottomano e le ha sostituite con ordinanze del Mandato inglese sugli ex territori dell’impero ottomano, che erano concepite per delimitare le terre pubbliche in un contesto completamente diverso.

Questa distorsione ha fornito le basi per una massiccia e illegale “israelificazione” delle terre palestinesi.

A questo si aggiunge che i governatori ottomani e inglesi che hanno emanato queste leggi non hanno mai espropriato terre palestinesi o ebraiche in questo modo.

Fin dal 1970 Israele ha utilizzato una simile manipolazione della legge nel Negev dichiarando terre non formalmente registrate in due momenti storici diversi – 1858 e 1921, come “terre morte”, terre presumibilmente incolte, non occupate, abbandonate e periferiche, senza proprietario e pertanto terre statali.

Israele ha fatto ciò nonostante l’appartenenza storica delle terre ai beduini, molte delle quali erano coltivate e occupate, secondo le leggi tradizionali e riconosciute da ottomani e inglesi.

Il confronto tra Cisgiordania e Negev pone in evidenza il persistente e continuo processo di giudeizzazione sotto il regime israeliano. Che la terra sia coltivata (Negev) o incolta (Cisgiordania) sarà trovato un escamotage legale per trasferirla da mani arabe a ebraiche, rendendola “terra nullius”, cioè svuotata dei diritti originari.

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Il villaggio di Selem (Fonte: www.B'Tselem.org)

Il villaggio di Selem (Fonte: www.B’Tselem.org)

 

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