Una chiarissima sintesi delle tre guerre dell’Occidente nella regione araba. Sintesi che fa molto riflettere su quel che accade e accadrà.
Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini
Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, sono almeno tre le guerre a guida USA portate nella regione araba, senza contare l’attacco sferrato contro i talebani nell’ottobre 2001 accusati di ospitare Osama bin Laden e il suo gruppo Al Qaeda (la casa) ritenuti responsabili del massacro.
A oggi la situazione resta caotica anche se i recenti eventi illuminano orizzonti diversi.
Nella prima decade del dicembre corrente, a otto settimane dall’inizio della campagna militare per la riconquista di Mosul – la capitale di Daesh – forze speciali irachene con l’appoggio di commando americani, inglesi e francesi e la copertura aerea dei cacciabombardieri americani, inglesi e australiani conquistano importanti nodi strategici alle porte della città.
Dalla stessa campagna è stata esclusa la Turchia il cui tentativo di partecipare con un contingente di truppe corazzate è stato fermato dal governo di Baghdad sostenuto dagli USA che hanno diffidato Ankara.
Governo, peshmerga e milizie sciite continuano una campagna che si avvicina alla conquista della città. Ma si avvicina anche ad affrontare il futuro prossimo: Baghdad resterà ancora capitale di un Iraq unitario o vinceranno le spinte separatiste che vengono dal sud sciita, con la sua “capitale Bassora”, e dal nord curdo con la sua “capitale” Erbil?
In questo quadro si aggiunge un ennesimo problema.
Il 7 dicembre l’aviazione irachena – anche se i leader tribali parlano di jet statunitensi – avrebbe colpito per tre volte un mercato nella città di Qaim, alla frontiera con la Siria, provocando l’uccisione di almeno 55 civili tra cui 19 bambini e 12 donne.
In merito, il presidente del Parlamento, Al Juburi, chiede l’apertura di un’inchiesta, mentre il comando generale parla di una situazione diversa: conferma il bombardamento a Qaim ma precisa che è stato colpito un palazzo a due piani con 25 foreign fighters di Daesh all’interno e definisce propaganda islamista l’uccisione di decine di civili.
La ratio dell’intervento è la riconquista dei ricchi giacimenti gasieri e petroliferi assicurati loro dalla dinastia Senussi, caduta con il colpo di Stato del giovane Gheddafi, proveniente da una modesta tribù (5 mila persone) di Sirte.
In pochi giorni, il Consiglio di Sicurezza ONU adotta contro la leadership libica sanzioni economiche e divieti di movimento fuori del Paese e avvia “bombardamenti umanitari” per la salvaguardia dei civili ma in realtà attaccando siti navali e di comunicazione e soprattutto l’ esercito libico fino all’uccisione di Gheddafi nell’ottobre dello stesso anno.
La guerra, proseguita dalla NATO è ancora in corso e facilita l’insediamento dei jihadisti di Daesh a Sirte, Benghasi e Fezzan. Il Paese appare senza vie d’uscite, mentre si scontrano fra di loro tre Governi e una miriade di milizie presenti in Cirenaica, Fezzan e Tripolitania. Contestualmente, sono operanti da tempo sull’intero territorio Egitto, Francia, Gran Bretagna, USA ed Emirati.
Negli ultimi mesi, dal primo agosto, su richiesta del Governo provvisorio di Al Sarraj, sostenuto dall’ONU, in Sirte aerei dell’ US Air Force e forze speciali francesi conducono attacchi contro i militanti di Daesh in supporto delle milizie di Misurata ma con effetti limitati.
In realtà, il Governo Al Sarraj colloquia con Occidente, USA e Italia ma non governa neppure la Tripolitania.
Chi governa di fatto è il generale Haftar, autoproclamatosi comandante in capo dell’ esercito nazionale e gode del supporto militare dell’Egitto.
In questo quadro, il capo del Consiglio Presidenziale, Alì Katrani, dichiara a “Sputnik”, agenzia russa, che “l’integrità del territorio libico arriverà dall’esercito sotto il comando di Haftar”, mentre gli altri leader sostenuti anche dall’Italia sono poco credibili.
Di maggiore interesse è che a novembre scorso Haftar si è recato a Mosca e, come svela il sito israliano Debka, ha negoziato nuove forniture di armi.
Durante l’incontro, sarebbe stata discussa anche la creazione in Libia di una base aerea e navale: la prima base russa in Nord Africa e la seconda nel Mediterraneo dopo quella di Hmeymim in Siria. La base sarebbe a Benghasi. In merito Mosca non avrebbe ancora fornito alcuna risposta.
Inizia una guerra civile che devasta il Paese, provoca circa 12 milioni fra profughi e sfollati, conta circa 1 milione di morti.
E diventa il luogo, dove si scontrano numerosi attori:
Tra l’8 e il 9 dicembre, l’esercito siriano controlla tutta la città vecchia di Aleppo. Ad Aleppo Est il successo più evidente di quelli conseguiti dalle truppe di Assad negli ultimi 14 mesi è facilitato dall’intervento militare russo che entra nella guerra accanto ad Assad nel settembre 2016.
La riconquista, quasi integrale, di Aleppo avviene nonostante la Coalizione a guida USA fornisce il sostegno ai c.d. “ribelli moderati” – come su scritto, un ossimoro – che combattono sul campo insieme ai jihadisti di Daesh con i quali sono in permanente simbiosi. Di fatto, le armi che la CIA fornisce ai “moderati” finiscono regolarmente nelle mani di miliziani di Daesh.
La Russia schiera cinquemila militari, migliaia di mercenari e contractors, 50 aerei e elicotteri, una decina di navi lanciamissili e portaerei. Il successo militare russo – e siriano – è riconosciuto anche dal segretario di Stato statunitense John Kerry, al MedForum di Roma.
Invece in Europa si propongono improbabili tregue e progetti di transizione politica oltre Assad, anche se le tregue promesse non sono mai state rispettate e non risultino in campo altri leader.
In realtà, USA ed Europa hanno lasciato l’opposizione ad Assad nelle mani delle monarchie sunnite del Golfo interessati a imporre la lettura wahabita a un Paese con una minoranza alawita e una maggioranza sunnita ma non wahabita. Si tratta comunque di un Paese che pur non amando Assad lo preferisce alle alternative jihadiste proposte da ribelli, jihadisti o presunti “moderati”.
In altri termini, non sono bastati gli aiuti dall’estero, le armi e il denaro che dal Golfo e dall’Occidente sono transitati via Giordania e Turchia: l’opposizione politica – e disarmata – è scomparsa dalla popolazione e l’ago della bilancia è finita in mano a un ampio fronte sunnita radicale.
Opposizione che consente a Daesh, sconfitta ad Aleppo, e riprendere parti di Palmira, dalla quale era stata costretta alla fuga. Daesh riesce a schierare 4.000 jihadisti per affrontare 200 militari dell’esercito siriano e 200 russi.
Mentre i russi rispondono, con l’ausilio dei loro raid aerei, uccidendo 400 militanti di Daesh, i soldati siriani, in difficoltà dopo 4 anni di guerra, abbandonano Palmira consentendo l’avanzata dei jihadisti.
Se la Turchia, uno dei primi Paesi a porre fine ai buoni rapporti anche personali con Assad e trattarlo come suo acerrimo nemico, è scomparsa l’Arabia Saudita.
Riyadh, dopo anni di finanziamenti me senza alcun sostegno ai rifugiati che ha provocato, e dopo la creazione dell’Alto Comitato per i negoziati (federazione anti-Assad, che unisce laici e salafiti) si è defilata, come del resto ha fatto l’Europa.
L’altro protagonista è la Russia che in poco più di un anno dal suo intervento militare ha ribaltato le sorti della guerra, che invece gli Stati Uniti rincorrono senza alcun esito positivo.
Mosca ha anche annunciato la sospensione dei raid per permettere l’evacuazione dei civili e predisposto una bozza di accordo con gli USA per far uscire dai quartieri Est i combattenti anti- Assad.
Dal suo canto, il presidente Assad, in un’intervista con il quotidiano ”Al Watan” si dichiara sicuro della vittoria ammettendo che non vuol dire la fine della guerra e aggiunge che “tutti gli occidentali e gli Stati regionali si affidano alla Turchia per applicare il loro progetto ..distruttivo in Siria e nel sostenere i terroristi… . poiché la Turchia ha gettato tutto il suo peso, ed Erdogan ha scommesso su Aleppo.. il suo fallimento ad Aleppo significa una trasformazione totale del corso della guerra in tutta la Siria, e quindi il fallimento del progetto straniero, che sia regionale o occidentale”.
E’ d’interesse, infine, quel che accade ad Aleppo nel silenzio quasi totale dei media.
La narrativa russa copre l’aspetto militare ma racconta anche le strade e le case ancora in piedi e da bonificare dalle trappole mortali dei jihadisti e la popolazione liberata da sfamare e soccorrere.
E parla di squadre di sminatori russi all’opera fra le macerie di Aleppo Est, mentre l’esercito allestisce ospedali e cucine da campo per la popolazione stremata.
E nel silenzio, a Mosca radio, TV, e giornali russi non raccontano altro.
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