Come cercare di comprendere quel che accade in Medio Oriente tra combattenti locali e attori stranieri. La situazione si evolve di giorno in giorno.
Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini
Nella notte del 31 ottobre le forze armate irachene penetrano Gojali e Karami, nella periferia di Mosul mentre i jihadisti di Daesh combattono usando civili come scudi umani ed esecuzioni sommarie.
All’interno della città ci sarebbero circa 5 mila jihadisti e 2 mila lungo la cintura difensiva esterna, pronti agli attacchi suicidi, a fronte di oltre 40 mila soldati governativi, combattenti curdi, sciiti e sunniti alleati al governo iracheno.
Ma la sconfitta di Daesh resta ancora lontana anche per le attività belliche dei numerosi attori stranieri che dall’invasione in Iraq del 2003 alla manipolazione delle dimostrazioni pacifiche in Siria nella primavera del 2011 perseguono obiettivi diversi dalla guerra contro il terrorismo dell’autoproclamato Califfato Islamico di Abu Bakr al Baghdadi.
Che sta accadendo?
Appena un giorno dopo la riconquista di Gojali e Karami, il colonnello statunitense John Dorian comunica che non l’esercito ma i bombardieri della Coalizione a guida USA hanno lanciato 3 mila bombe su Mosul.
E’ invece il britannico “Guardian” a rivelare che una famiglia di otto persone fra cui tre bambini sono stati uccisi da un attacco aereo americano nella loro abitazione a Fadhiliya, a pochi chilometri da Mosul.
Innocenti che si aggiungono ad altri “danni collaterali”: 1.120 civili a ottobre e 672 membri di forze armate, polizia, peshmerga curdi e combattenti sciiti alleati del governo.
Meno conosciuta è la presenza nello scacchiere Iraq – Siria anche della NATO che nella coalizione a guida USA-NATO ha realizzato in 2 anni e 2 mesi oltre 18.500 attacchi aerei, di cui 10.200 in Iraq e 5.600 in Siria.
E in conferenza stampa a Bruxelles il segretario generale della NATO, l’americano Jens Stoltenberg, annunzia il supporto alla coalizione anti-Daesh. Supporto dettagliato dal colonnello USA John Dorrian che parla di 32 incursioni fra il 17 e il 23 ottobre con la distruzione di 136 posizioni di combattimento, 18 gallerie e 26 veicoli-bomba.
Proseguiamo con la Turchia, che da settimane invia soldati, mezzi corazzati, artiglieria e aerei alla città di confine di Silopi, pronto per intervenire a Mosul. D’altronde, la Turchia ha formato un presidio militare a Bashiqa, a 35 km da Mosul, nonostante le proteste di Baghdad che, invano, ha invocato l’intervento del Consiglio di Sicurezza ONU per violazione della sovranità dell’Iraq. Nel presidio, la Turchia addestra 1.500 sunniti delle ”Forze di mobilitazione Nazionale” (Hashid al Watani) arruolati da Athil al Nujaifi, già governatore di Ninive, che combattono con l’esercito governativo.
Come pretesto per intervenire con il suo esercito a Mosul, il presidente turco sostiene che intende proteggere i civili sunniti da possibili aggressioni da parte dei combattenti sciiti delle “Unità di mobilitazione popolare” (Hashid al Ahaabi) in avanzamento verso Mosul.
In realtà, il presidente turco vuole partecipare alla spartizione del Paese e, soprattutto, controllare i curdi traendo profitto dei buoni rapporti sedimentati con il governo autonomo del Kurdistan iracheno di Barzani – in buoni rapporti con Qatar e Arabia Saudita – lanciando un’offensiva militare analoga a quella già sperimentata in Siria iniziata il 24 agosto scorso.
Non a caso, il capo di stato maggiore turco, Hulusi Akar, è attualmente a Mosca per coordinare con i russi l’attività politica e militare.
Perché questo rinnovato e intenso rapporto con la Russia?
La Turchia sa bene che la Russia vive l’allargamento della NATO ai Paesi già facenti parte del Patto di Varsavia e delle Repubbliche baltiche interne all’URSS come una potenziale minaccia.
Se durante il periodo della “guerra fredda” USA e URSS si accordarono per non avere più basi anti-missilistiche sui rispettivi territori, in realtà Bush nell’anno di sua scadenza dichiarò di non poterlo rinnovare perché gli USA dovevano difendersi dagli “Stati canaglia” mediorientali. Il problema è che le nuove basi anti-missilistiche americane, dalla Polonia alla Repubblica Ceca e alla Romania, hanno circondato la Russia e non l’Iran o l’Iraq.
Inoltre, le “rivoluzioni colorate” (significativo eufemismo per depotenziarne la reale valenza, come fatto per le c.d. “primavere arabe” così definite le manifestazioni, armate e non, iniziate in Maghreb e Mashrak, dal filosofo francese Bernard Henri Lévy, guru del presidente francese) in Georgia e Ucraina furono accettate subito dall’Occidente.
Quando nel 2008 il governo georgiano invase l’Ossezia del Sud, sul territorio georgiano era allocato un contingente americano di 800 addestratori.
E sull’Ucraina non bisogna dimenticare l’intesa raggiunta con il presidente filorusso Yanukovich, che aveva accettato nuove elezioni, con la certificazione di quattro ministri degli esteri EU. Ma la notte seguente all’accordo, avvenne il colpo di Stato in Ucraina che ha destituito Yanukovich.
Inoltre, le esercitazioni di quattro battaglioni in Lettonia Lituania e Polonia fatte dalla NATO la scorsa estate non poteva non irritare la Russia che è dall’altra parte del confine.
Atto interpretato diretto dagli USA, che avevano in loco esponenti della CIA, come ostile da parte russa, così come il sostegno USA offerto all’ ”opposizione moderata” (i cui jihadisti sono in osmosi con Daesh) siriana contro Assad.
Non va dimenticato che la Siria è storico alleato dell’URSS prima e della Russia dopo nel Mediterraneo e ci sono basi siriane in cui la Russia mantiene la sua flotta e vede nella destituzione di Assad l’ennesima minaccia alla sua presenza nella regione mediorientale.
La sintesi di un’intervista rilasciata recentemente a Nena news da Riza Altun, comandante del Partito dei Lavoratori (PKK) a Qandil e membro del “Consiglio Esecutivo dell’Unione delle Comunità Turche” (Kck) chiarisce il complesso scenario sotteso a queste “guerre umanitarie”.
Secondo Altun, il presidente Erdogan, con gli alleati Arabia Saudita, Qatar e militanti di Fatah al Sham (già al Nusra) e Daesh, intende creare scontri fra i gruppi religiosi presenti in Medio Oriente per realizzare un’unica cultura (strategia analoga al più volte segnalato “caos costruttivo”).
Prendendo a esempio recenti vicende siriane, le vittorie curde a Makhmur, Senjar e Kobane costringono la Turchia e Daesh ad abbandonare l’area.
Ecco che, quando l‘ ”Unità di protezione popolare” (Ypg) libera Manbij sconfigge i miliziani di Daesh, l’esercito turco interviene nella vicina Jarablus con la scusa di salvare i civili ma in realtà per combattere i curdi e salvare i jihadisti di Daesh.
Episodio che dimostra, secondo Altun, che l’obiettivo turco è impedire che la Siria diventi uno Stato federale e acquisisca il diritto di far parte dei Paesi che ne decideranno il futuro regime.
Insomma, anche per la Siria – oltre a quello che fa in Iraq contro i curdi non solo sulle montagne di Qandil – la Turchia vuole proseguire verso Raqqa e Aleppo per impedire la formazione di uno Stato curdo e gestire una parte del Medio Oriente come ai tempi dell’impero ottomano.
Anche gli altri attori hanno le loro agende.
La Russia, vicina alla Siria da decenni, sta consolidando alleanze con la stessa Turchia e l’Iran in chiave anti USA, NATO ed Europa per le sanzioni e l’accerchiamento da parte di numerosi Stati dell’ex URSS attraverso il posizionamento di armamento ad altissimo livello militare, con presenza di materiale atomico di pronto impiego.
La Turchia è protesa a creare un nuovo Stato Islamico governato con la Sharia. Altun non crede che la Turchia combatta contro Daesh e porta l’esempio della conquista di Manbij, dove i curdi hanno combattuto 100 giorni, avuto 150 morti e più di 1.000 feriti, e si chiede come sia possibile che i turchi in 70 giorni di guerra abbiano subito solo la morte di 2 soldati e un solo blindato distrutto.
Se la Turchia è arrivata a questo punto – aggiunge Altun- lo deve all’Europa che ne sopporta insulti e minacce sotto il ricatto della migrazione, senza considerare che si tratta di un Paese che non rispetta la democrazia e per quanto sta facendo nel suo Paese, potrebbe produrre oltre 20 milioni di migranti verso l’Europa.
Infine, per quanto riguarda l’Iran, secondo Altun, Teheran ha avviato una compagine che con Russia e Siria non solo ne aumenta il loro potere ma innalza anche la tensione nei confronti della coalizione a guida USA.
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