POSIZIONI CONFLITTUALI  NEL PROBLEMA ISRAELO-PALESTINESE

POSIZIONI CONFLITTUALI NEL PROBLEMA ISRAELO-PALESTINESE

Netanyahu

Netanyahu

Rispetto reciproco anche per la propria storia: il problema israelo-palestinese si può risolvere solo così. Una analisi dei fatti e delle speranze che si possono nutrire cercando di comprendere quel che avvenne dal 1948 in poi…in modo sintetico.

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

A settembre, il premier israeliano Benjamin Netanyahu afferma nella sua bacheca Facebook che “qualsiasi futuro smantellamento di colonie ebraiche in Cisgiordania costituirebbe una violazione dei diritti dei coloni e una pulizia etnica”.

Il primo ministro ripete quanto dichiarato dall’ex ministro degli esteri, Abba Eban, che nel 1969 definì il possibile ritorno ai confini pre-1967 come “qualcosa che ricorda Auschwitz”, paragonando l’eventuale ritiro dai territori occupati nel ’67 a un altro genocidio del popolo ebraico e questa volta anche all’interno della Palestina.

L’evocazione delle terribili e disumane violazioni, perpetrate durante la Shoah (catastrofe) con il massacro di sei milioni d’innocenti, consentirebbe di presentare la colonizzazione come una misura preventiva contro un altro Auschwitz.

Come risposta, il segretario delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon, definisce “oltraggioso e inaccettabile definire pulizia etnica l’opposizione alle colonie in Cisgiordania (22% della Palestina storica)… Gli insediamenti (nei Territori occupati) sono illegali per la legge internazionale. L’ occupazione israeliana oppressiva e soffocante deve finire”.

Le tensioni fra Israele e ONU sono evidenziate anche dagli ordini che il ministro della difesa, Avigdor Liederman, avrebbe dato ai suoi ufficiali e ai ministri di boicottare l’inviato dell’ONU in Medio Oriente, Nickolay Mladenov, per le sue critiche sull’espansione delle colonie in Cisgiordania, secondo quando riportato dal quotidiano israeliano “HaAretz”.

Per comprendere la ratio del conflitto israelo-palestinese occorre arrivare alla radice dei due popoli, sia pure in estrema sintesi.

I sostenitori di Israele affermano che “Israele è l’unico Stato ebraico e l’unica democrazia nel Medio Oriente” e la maggioranza ritiene le critiche a Israele un atto di antisemitismo.

Molti media israeliani riferendosi alla guerra del 1948 e all’unilaterale dichiarazione della creazione dello Stato di Israele il 14 maggio dello stesso anno valutano la conseguente questione dei profughi palestinesi un problema simile a quello dell’allontanamento di indù e musulmani nel corso della ripartizione dell’India.

Come esempio, si presenta il fatto che i danni inflitti all’etnia tedesca dagli “Accordi di POTSDAM” (17 luglio – 2 agosto 1944) per ridefinire l’organizzazione dell’Europa e in particolare della Germania dopo la fine del conflitto e che lo scambio turco-greco negli anni ’20 non si sono conclusi con il rientro in patria degli sconfitti, inseritisi nei nuovi contesti e non trasformatisi in rifugiati apolidi, per cui non si comprende la specialità del conflitto israelo-palestinese.

La storia insegna che quel conflitto, al contrario degli altri, ha una dimensione religiosa e non riguarda una terra qualunque ma luoghi considerati sacri da ebrei e musulmani.

Nella realtà, le frasi più sentite sono riferite alla “Terra Promessa” di cui si parla nella Torah e poco della Terra da cui ascese al cielo il profeta Maometto, di cui parla il Corano.

Cosa fa l’Occidente ? Quante volte si sentono i cristiani sostenere Israele, citando il Libro delle Rivelazioni, i Vangeli, l’Antico Testamento e le altre parti della Bibbia? E quanto raramente si sente parlare dei compagni del Profeta che sono sepolti a Gerusalemme e nel suo retroterra, o il riconoscimento di profeti dell’islam come Abramo, Mosé, Davide, Salomone e lo stesso Gesù?

La realtà è che l’approccio palestinese più diffuso per la risoluzione del conflitto è stato all’inizio quello della lotta armata laica che, poi, è stata adottata non dall’Islam ma dall’islamismo, un’ideologia religiosa e politica, come le formazioni islamiche palestinesi “Hamas” (Al Muqawama Al Islamiyya) e “JIP” (Palestinian Islamic Jihad).

Le rivendicazioni pacifiche palestinesi che trovano il loro Azimut negli Accordi di Oslo del 13 settembre 1993 ne sono state depotenziate. Le posizione delle due parti si possono specificare con i dati più recenti presentando le rispettive narrazioni.

Nel parlamento israeliano il 19 luglio 2016 una maggioranza di ¾ dei membri approva una legge per l’espulsione di un parlamentare eletto se non se ne condividono le opinioni.

Il primo bersaglio di questa legge è Haneen Zoabi, un’esponente del partito Balad, il quale sostiene che Israele dovrebbe essere uno Stato per tutti i cittadini e che i palestinesi con cittadinanza israeliana dovrebbero essere riconosciuti come minoranza.

Nello scorso giugno, prima dell’approvazione della legge, una dozzina di parlamentari protestano violentemente contro Zoabi mentre esponeva il patto di riconciliazione del governo israeliano con la Turchia.

Zoabi aveva scandalizzato i parlamentari parlando di “assassinio” di 10 attivisti umanitari da parte del commando israeliano nel 2010 con l’assalto della nave turca Mavi Marmara. La flottiglia di solidarietà, alla quale Zoabi aveva partecipato, era stata attaccata quando, salpata dalla Turchia verso la Striscia di Gaza, si trovava in acque internazionali. L’incidente aveva portato alla rottura dei rapporti con la Turchia.

All’approvazione della legge, il primo ministro Netanyahu diffonde sulle reti sociali la seguente dichiarazione: “Quelli che appoggiano il terrorismo contro Israele e i suoi cittadini non faranno parte della Knesset israeliana”.

L’espulsione può essere portata a termine se 90 parlamentari sui 120 membri ritengono che il politico abbia incitato al razzismo o abbia appoggiato la lotta armata contro Israele. Nella legge non c’è una definizione dell’ “appoggio”.

“Adalah”, il centro giuridico che rappresenta la minoranza palestinese costituita dalla “Lista Unitaria” – raggruppante i 4 piccoli partiti palestinesi, ha 13 seggi – sottolinea che la Knesset potrà prendere in considerazione le affermazioni del parlamentare e non solo azioni o obiettivi manifesti, mentre prima un politico avrebbe potuto essere destituito solo se coinvolto in un grave crimine. In merito, il leader del partito, Balad, Zamal Zahalka, sottolinea che in ogni Paese l’immunità parlamentare conferisce agli eletti diritti più ampi di quelli dei comuni cittadini per permettere loro di svolgere i propri compiti in parlamento, mentre solo in Israele i rappresentati eletti avranno maggiori restrizioni alla libertà di parola e azione dei comuni cittadini”.

Questa legge, nota come “la Legge sull’Espulsione”, fa seguito alla messa fuorilegge nel 2015 del Movimento Islamico (MI) del Nord, movimento extraparlamentare guidato dallo sheikh Raed Salah, considerato un leader spirituale dalla gran parte della comunità.

All’epoca, il primo ministro israeliano aveva insinuato che il MI fosse legato ad attività terroristiche. Il quotidiano israeliano HaAretz rivelò al contrario che i servizi di sicurezza non avevano trovato alcun riscontro. La posizione palestinese è illustrata da Ramzy Baround, che ha partecipato alla Conferenza “Palestine in the Media”, organizzata dal “Palestine International Forum for the Media and Communication.”

Nella Conferenza si prende atto che se la classe dirigente non riesce a raggiungere l’unità politica, spetta agli intellettuali insistere sull’unità della narrazione sugli eventi dal 1948 in poi. Baround osserva che tutti i palestinesi riconoscono la centralità della Nakba (il disastro), la pulizia etnica della Palestina e la distruzione di città e villaggi fra il 1947 e 1948.

Inoltre, tutti possono convenire su violenza dell’occupazione, disumanizzazione dei check-point militari, erosione del territorio in Cisgiordania e Gerusalemme Est per insediamenti illegali e colonizzazione, blocco della Striscia di Gaza dal 2006, guerre unilaterali condotte nella Striscia nel dicembre 2008-gennaio 2009, 2012, 2014, con oltre 4.000 morti.

Baround sostiene che i palestinesi sono vittime delle stesse atrocità, combattono la stessa occupazione, subiscono le stesse violazione dei diritti umani e affrontano un futuro incerto.

Eppure, molti non riescono a separarsi da affiliazioni a gruppi e fazioni di natura tribale.

Se questo legame è predominante sulla lotta nazionale per la libertà continua la crisi.

Ma a oltre 20 anni dal fallimento del “processo di pace” iniziato con l’Accordo di Oslo, con l’aumento esponenziale degli insediamenti nei territori occupati, molti palestinesi sono convinti che non ci può essere libertà per il popolo senza unità e resistenza.

Resistenza che non è sinonimo di armi e coltelli e tanto meno di stragi di civili, ma va intesa come utilizzo delle energie dei connazionali in patria e nella diaspora, e mobilitazione delle comunità a favore della giustizia e della pace nel mondo.

Baround invita a ricordare che verso la fine degli anni ’50, l’allora premier israeliano David Ben Gurion si rese conto della necessità di unificare la narrazione sionista relativa alla conquista e alla pulizia etnica della Palestina. Secondo rivelazioni del quotidiano HaAretz, Ben Gurion temeva che la crisi dei rifugiati sarebbe divenuta un problema se Israele non avesse dichiarato spesso e in modo coerente che i palestinesi avevano lasciato volontariamente le loro terre seguendo la volontà dei vari governi arabi.

In realtà era così?

Ben Gurion chiese a diversi accademici di presentare la narrazione della storia dell’esodo dei palestinesi come da lui suggerito e il risultato fu il “GL- 18/17028 del 1961”, pietra miliare della “Hasbara” (narrazione) israeliana sulla pulizia etnica della Palestina. Narrazione che contiene un semplice messaggio: i palestinesi fuggirono e non furono cacciati dalle loro case.

Israele lo ripete da oltre 55 anni e molti hanno finito per crederci.

Solo di recente, dopo il lavoro di un gruppo di storici palestinesi e coraggiosi israeliani, che si oppongono a questa propaganda, si sta delineando anche la narrazione palestinese.

Gli intellettuali palestinesi dovrebbero dedicare tempo ed energie a studiare e raccontare la “storia del popolo palestinese”, per riumanizzarlo e sfidare la percezione generalizzata che li vede come terroristi o come eterne vittime.

Con la stessa logica, dovrebbero operare i giornalisti palestinesi, aprendosi al mondo per confrontarsi con la società. Gli estimatori della verità, soprattutto quelli animati da una visione umanitaria, non potranno approvare il genocidio e la pulizia etnica.

E c’è qualcuno che lo ha già fatto, un palestinese e due israeliani.

Salman Abu Sitta, profugo dal 1948 e fervido pacifista, trascorre la vita in giro per il mondo e ha rintracciato la quasi totalità dei palestinesi nella diaspora. Abu Sitta è riuscito a ricostruire il numero dei villaggi distrutti e delle abitazioni da cui sono stati espulsi i palestinesi durante quella guerra, riproducendone la mappatura esatta e recuperandone le chiavi delle case.

Dei due israeliani, il primo, Ilan Pappé, nato ad Haifa da genitori ebrei sfuggiti dalla persecuzione nazista, nell’aprile 2008 pubblica il libro “La pulizia etnica della Palestina”, dopo avere studiato la documentazione inerente a questo punto cruciale della storia del suo Paese, compresi gli archivi militari de-secretati dal 1998, dei quali ripropone numerosi stralci.

Il secondo è Gideon Levy, giornalista di HaAretz, che tre giorni dopo le dichiarazioni del premier israeliano, pubblica un articolo contestandone la posizione.

Dal suo canto, Israele è un Paese democratico i cui cittadini ebrei portano nella memoria emarginazioni e persecuzioni ataviche indimenticabili fino alla Shoah che rappresenta il culmine della ferocia disumana.

Yad Vashem (Yad= monumento; Shem= nome) sul Monte Herzel (Monte della Memoria) a Gerusalemme ricorda i sei milioni di ebrei di tutte le età uccisi con programmate pianificazioni di sterminio da nazisti e collaboratori e i non ebrei di diverse nazioni che rischiarono la vita per aiutare gli ebrei nella Shoah.

La visita su quel Monte insegna con la documentazione e la costante diffusione con altoparlante dei nomi dei morti quale terribile tragedia abbia attraversato quel popolo.

Una pacificazione potrà essere possibile quando le due parti, senza dimenticare il rispettivo vissuto e tenendo presente l’evoluzione attuale e in proiezione, riprenderanno la posizione di Oslo ma senza le precondizioni che ne hanno depotenziato il successo.

In altri termini, occorrerà non fornire alle posizioni più rigide l’opportunità di annullare la possibile “pace dei coraggiosi” ma continuare la strada basata sul reciproco rispetto.

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Haneen Zouabi

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