TURCHIA. DALLA LAICITA’ AL PRESIDENZIALISMO ISLAMICO

TURCHIA. DALLA LAICITA’ AL PRESIDENZIALISMO ISLAMICO

Fethullah Gulen

Fethullah Gulen

Un lucido panorama dell’attuale situazione in Turchia e nelle regione strategica…’nuove’ sembrano ….ma sono vecchie alternanze geopolitiche.

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini             

Contestualmente all’annuncio del fallito colpo di Stato del 15 luglio, il presidente Erdogan ne ha indicato lo stratega in Fetullah Gulen, il 75 enne predicatore, già suo stretto alleato.

Gulen, ufficialmente residente dal 2008 in Pennsylvania nel Centro per gli anziani fondato da americani di origine turca, è un imam sunnita aperto al dialogo fra le tre religioni monoteiste (ebraismo, cristianesimo, islam) e a un sistema multipartitico.

Ricco e molto potente quando era in Turchia, Gulen è stato – e sarebbe tuttora secondo Erdogan – il referente di un movimento di migliaia di persone disseminate in tutto il Paese e godrebbe dell’appoggio di banche, imprese, mezzi di comunicazione, forze di sicurezza, giudici.

La rottura fra Erdogan e Gulen avviene nel 2013 quando l’imam condanna la repressione della protesta di Gezi Park e accusa Erdogan e famiglia di corruzione.

Dal giorno successivo al fallito golpe, il presidente dichiara lo stato di emergenza di 3 mesi rinnovabili violando di fatto quella che è una prerogativa del Governo, sospende la Convenzione dei diritti dell’uomo per tutta la durata della legge emergenziale e avvia una campagna di epurazione di quanti ritiene vicini a Gulen in forze di polizia, esercito, autorità giudiziaria, giornalisti, funzionari pubblici e insegnanti.

In pochi giorni il numero di arrestati e sospesi è di 58 mila persone ed è in crescita esponenziale mentre Erdogan chiede agli USA l’estradizione di Gulen in un beve colloquio con il suo omologo Barak Obama che gli ribadisce la necessità di ricevere la documentazione delle prove acquisite.

Nel Paese, la repressione ha finora:

  • arrestato 7.500 militari fra i quali 85 generali e ammiragli;
  • rimosso 8.000 poliziotti e arrestati 1.000;
  • sospesi 3.000 membri della magistratura, tra cui 1.481 giudici;
  • licenziato 15.200 funzionari del ministero dell’istruzione;
  • revocato le licenze a 21.000 insegnanti;
  • obbligato 1.577 presidi di facoltà universitarie a dimettersi;
  • rimosso 1.500 collaboratori del ministro delle finanze;
  • licenziati 492 imam, predicatori e insegnanti di religione;
  • licenziati 393 collaboratori del ministro per le politiche sociali;
  • rimossi 257 dipendenti dell’ufficio del primo ministro;
  • sospesi 100 funzionari dell’intelligence.

La ratio sottesa a queste misure è fornita dagli obiettivi non improvvisati ma preparati da tempo per preparare quella riforma costituzionale che consentirebbe al presidente di controllare le funzioni legislative, esecutive e giudiziarie.

Il conclamato obiettivo primario di Erdogan è quello di “ripulire tutte le istituzioni statali” da coloro che indica come “lo Stato parallelo” guidato da Gulen.

Gulan ha sostenitori che ne condividono l’interpretazione evolutiva e moderata dell’islam e versano al movimento il 20% del loro reddito.

Il secondo obiettivo è la crescita dell’istruzione islamica a scuola e nelle università. Infatti, da quando il suo “Partito per la Giustizia e lo Sviluppo” (Akp) di matrice islamica, è salito al potere nel 2002, il numero dei bambini che frequentano le scuole religiose è cresciuto del 90% .

E’ in questo quadro che sono stati presi di mira i rettori delle università per realizzare il rinnovamento delle 300 università del Paese.

Mentre ne prepara il nuovo assetto, il presidente Erdogan tramite il Consiglio per l’istruzione superiore vieta le missioni all’estero del personale accademico.

L’attacco ai dipendenti pubblici potrebbe essere fatto risalire a uno scandalo del 2010 inerente ai concorsi pubblici truccati di cui anche allora sarebbero stati sospettati i seguaci di Gulen.

In merito, un’altra possibilità è che il governo intenda eliminare gli avversari della comunità alawita che conta circa 15 milioni di fedeli.

L’Akp è infatti un partito a larga maggioranza sunnita mentre la setta alevita opera una sincresi fra elementi dell’islam con tradizioni popolari preislamiche.

L’altro obiettivo riguarda l’informazione.

Infatti il Consiglio supremo per la radio e la televisione (Rtuk) decide di revocare le licenze di 24 emittenti “collegate e sostenitrici” del movimento ispirato a Gulen.

Il 20 luglio il governo blocca anche l’accesso al sito Wikileaks che aveva pubblicato circa 300 mila e-mail provenienti dall’account di posta dell’Akp.

La crisi fra USA e Turchia potrebbe provocare l’ennesima lacerazione delle alleanze nella regione dell’estremo oriente e non solo.

Non a caso a seguito del fallito golpe, il ministero degli esteri russo manifestava incredulità per l’intelligence della NATO all’oscuro di tutto.

Una eco proveniva dall’agenzia di stampa secondo la quale sarebbe stato proprio Vladimir Putin ad allertare Erdogan sulle intenzioni di una parte delle forze armate turche.

Poi, in via ufficiale, l’Iran esprime sollievo per il fallimento del golpe e la stampa riformista vicina al presidente Hassan Rouhani sottolinea il ruolo positivo del popolo turco sceso in strada a difendere la democrazia.

L’iniziativa di Rouhani mira anche a contrastare gli ambienti più conservatori della repubblica iraniana, che considera Erdogan un nemico e lo accusa di avere pianificato il “finto golpe” per coprire i gravi errori commessi nella politica interna ed estera.

I sostenitori di Rouhani invece danno un’altra lettura e ritengono che il peggioramento delle relazioni turco-americane possa consentire il rafforzamento del dialogo turco con l’Iran e revocarne le sanzioni imposte dagli USA secondo le intese raggiunte per il successo dell’accordo internazionale sul programma nucleare del luglio 2015, che non ha ancora dato i frutti sperati.

Anche Damasco guarda con cauto ottimismo gli sviluppi politici e diplomatici nella regione.

Un ottimismo che sembra giustificato secondo il noto editorialista arabo Abel Bari Atwan alla luce delle intenzioni di Erdogan, successive al fallito golpe, di migliorarle relazioni con “tutti i vicini”, Siria inclusa e mantenere una posizione di fermezza nei confronti di Europa e USA.

All’iniziativa iraniana, arriva la risposta di Erdogan, impegnato nelle ultime settimane a riavvicinarsi agli avversari regionali: prima è toccato a Israele, poi a Mosca.

In una telefonata con Rouhani, Erdogan – secondo l’emittente russa Tass – il presidente turco si è detto pronto a riallacciare i rapporti con l’Iran con l’obiettivo di contribuire alla soluzione dei problemi regionali con Iran e Russia.

Di fatto, già nel giugno 2016 il colosso turco Unit International, guidato da Unal Ausal, ha annunciato la firma di un accordo con il ministero dell’energia iraniano per la costruzione in 7 regioni differenti della repubblica iraniana.

Gli impianti, la cui costruzione inizierà nel gennaio 2017, sprigioneranno 6,020 megawatts che copriranno il 10% del fabbisogno energetico degli iraniani.

L’affare ammonta a 4,2 miliardi di dollari ed è il più grande investimento economico in Iran, dopo gli accordi per il ritiro delle sanzioni economiche.

L’intesa politica fra Iran e Turchia si è conservata anche perché entrambi appoggiano il movimento islamico palestinese combattente HAMAS, che sono pronti a sostenere nel caso dell’ennesima campagna distruttiva di Israele.

Eccellenti sono anche i rapporti fra Russia e Iran pur nella diversità delle rispettive agende.

Un’alleanza politico-militare fra Turchia, Russia e Iran costituirebbe un problema per gli USA.

Innanzitutto, perché gli USA hanno scatenato la guerra del 2003 contro l’Iraq per sottrarre una parte del medio- oriente alla Russia, di cui Saddam Hussein, sunnita, era un importante alleato.

Poi però gli iracheni hanno eletto un governo sciita che ha stabilito ottimi rapporti con l’Iran sciita.

Inoltre, l’eventuale espulsione della Turchia dalla NATO comporterebbe l’esistenza di un nuovo blocco mediorientale non soltanto politico e militare ma anche geografico visto che Turchia, Iran e Iraq confinano fra di loro.

Insomma un blocco non necessariamente anti-americano ma certamente filo-russo.

Non a caso, il Dipartimento di Stato americano, attraverso il portavoce John Kirby, si è affrettato a dichiarare (il 21 luglio) che al momento non esiste alcun pericolo che la Turchia venga espulsa dalla NATO.

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Recep Tayyip Erdoğan

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