L’AGONIA SENZA FINE DEL DARFUR

L’AGONIA SENZA FINE DEL DARFUR

Il Darfur

Il Darfur

Non se ne parla più. Non si conosce: dove è la regione del Darfur? Che accade in quell’angolo di mondo subsahariano? Emigranti e sfollati. Un articolo molto istruttivo e chiaro.

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

Il Darfur è una regione grande quanto la Francia e situata nella parte occidentale del Sudan, Stato dell’Africa centro–orientale, con una collocazione geografica problematica che l’ha esposta a non poche sventure e in stato di guerra permanente.

Etimologicamente significa casa (dar in arabo) dei Fur, l’etnia dominante insieme con quella dei Massalit e degli Zaghawa, ed è suddivisa in tre zone, Gharb (occidente), Shamal (nord) e Gianub (sud).

Va peraltro segnalato che in Darfur, oltre alle citate tre etnie principali, convivono numerosi gruppi che hanno una propria tradizione e cultura, con il tratto comune di mal sopportare un controllo politico, economico, culturale e religioso centralizzato.

Tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo nella regione fu fondato un sultanato islamico da parte della dinastia Keira dei Fur, in seguito conquistato dalle forze turco–egiziane, a loro volta sconfitte da Muhammad Ahmad, autoproclamatosi Mahdi, il Redentore.

Nel 1916 le forze britanniche conquistarono lo Stato mahdista, invasero il Darfur ed imposero al Sudan una dominazione anglo – egiziana.

La difficile eredità della politica coloniale inglese pesa sulla storia recente e sullo sviluppo non armonico del Sudan (a lungo per gli americani uno degli “Stati canaglia” contro cui combattere la guerra al terrorismo globale, insieme a Iran, Iraq, Corea del Nord ma anche Cuba, Bielorussia, Myanmar e Zimbabwe), con una zona settentrionale più sviluppata e il resto del Paese confinato ad un’economia di sussistenza senza alcuna prospettiva.

La logica della divisione fu rafforzata all’atto dell’indipendenza nel 1956 con il totale disinteresse del Governo centrale verso il sud, che divenne teatro delle violente repressioni contro i gruppi ribelli.

E’ certamente vero che negli anni, secondo molti osservatori internazionali, Khartoum ha adottato una politica di “arabizzazione” del Darfur, incoraggiando il flusso di arabi provenienti dal Ciad e dal Niger, con la promessa di assegnazioni di terra da coltivare, ma caratterizzare il conflitto solo come uno scontro tra popolazioni arabe ed africane è riduttivo, giacché le radici non sono solo razziali o etniche, ma hanno anche una connotazione politica ed economica.

Nel 2006 in due zone del Darfur, Foro Baranga e Habila, la popolazione era composta per l’80% da africani e per il restante 20% da arabi; un anno dopo, la percentuale degli arabi era raddoppiata, mentre quella africana era scesa al 60%.

A questa repentina modifica della composizione etnica ha contribuito anche il flusso spontaneo di una grande quantità di profughi provenienti dall’est del Ciad in fuga dalla guerra.

Il lento ma inesorabile processo di desertificazione, di degrado ambientale e la conseguente e progressiva scomparsa di terre fertili, è tra le cause delle lotte che accadono nel Darfur, nel cui sottosuolo è ricco di acqua, a differenza del resto del Sudan.

Il deserto ogni anno erode chilometri di terra coltivabile a una velocità preoccupante, basti pensare che addietro negli anni ‘90 era distante più di cento chilometri dalla città di Nyala, mentre oggi è arrivato a pochi chilometri dalla periferia.

In tutta la regione del Darfur in sostanza non vi sono industrie e non ci sono alternative occupazionali alla pastorizia e all’agricoltura, salvo ingrossare le file delle milizie o, in alternativa, quelle dell’esercito sudanese.

Tra il 2003 e il 2005 la recrudescenza del conflitto tra i guerriglieri e il regime di Khartoum ha causato la morte di centinaia di migliaia di persone e un numero impressionante di profughi. Questi scontri hanno creato una massa di profughi che sono assistiti dalle ONG (preziosa l’attività di quelle italiane e il contributo delle Suore della Carità e dei Padri Comboniani), nei numerosi campi profughi installati alle porte delle città che però, nel corso del tempo, si sono trasformati in vere e proprie roccaforti dei ribelli.

Nel 2004 è stata dispiegata, con scarso successo, una prima forza di pace, l’African Union Mission in Sudan – AMIS in base alla risoluzione 1556 delle Nazioni Unite.

Il dato significativo è che, per la prima volta, l’Unione Africana ha assunto compiti militari di monitoraggio in uno Stato membro.

Nel 2006 la situazione si è ulteriormente deteriorata a seguito dell’accordo di pace firmato nel mese di maggio tra il governo sudanese e alcune fazioni dei ribelli, non tutte.

Gli anni successivi sono segnati da una situazione magmatica, difficile da decifrare, in cui i vari gruppi dei ribelli si frammentano e si ricompongono continuamente sulla base degli interessi del momento e un Governo centrale che, nella più classica situazione del dividi ed impera, conserva il suo potere.

Il Governo di Khartoum, preoccupato per la sopravvivenza della propria giunta militare e per l’accusa mossa dal Tribunale Internazionale dell’Aja d’aver commesso crimini di guerra e contro l’umanità, cerca in tutti i modi di boicottare il dispiegamento di una nuova missione Onu in sostituzione dell’AMIS, più consistente, meglio equipaggiata, con un mandato più chiaro e minori vincoli operativi.

E’ altresì preoccupato per la sopravvivenza della propria giunta militare e per l’accusa mossa dal Tribunale Internazionale d’aver commesso crimini di guerra e contro l’umanità.

Finalmente, nel 2007 l’AMIS è sostituita da una nuova missione di pace congiunta ONU – Unione Africana, African Union – United Nations Hibrid operations in Darfur – UNAMID, ma le violenze purtroppo non cessano.

Nemmeno l’indipendenza del Sud Sudan dal Nord, ottenuta nel 2011 (54° paese africano, 193° membro delle Nazioni Unite e, a tutti gli effetti, una Repubblica Presidenziale Federale), ha posto fine alle violenze, anzi, al contrario, ha acuito uno stato di crisi permanente.

La separazione, nata come una sorta di risarcimento per i lunghi secoli di dominio e di sfruttamento del nord arabo e musulmano a danno del sud, non è stata sufficiente per risolvere i numerosi problemi che continuano a dilaniare la regione del Darfur.

Dopo un’instabile tregua, sancita nel 2011 con il Trattato di Doha, e la creazione di un Comitato misto composto dalle Nazioni Unite e dall’Unione Africana per il monitoraggio del cessate il fuoco, nel 2013 il conflitto è ripreso e con esso è ripartita la triste conta dei morti, degli sfollati e dei rifugiati nei paesi viciniori.

Secondo dati dell’UNAMID, nei primi mesi di quest’anno più di 20 mila persone hanno cercato rifugio e protezione nelle basi militari per sfuggire all’escalation dei bombardamenti concentrati nel nord del Darfur.

La situazione umanitaria è disastrosa, con problemi sempre più pressanti di scarsità di cibo e, soprattutto, di acqua potabile.

Il rischio di diffusione delle malattie è sempre molto alto, e si segnalano periodicamente focolai di tubercolosi, poliomelite e persino di lebbra.

A complicare ulteriormente un contesto di per sé già disastroso, è da registrare una situazione infrastrutturale (strade, ponti, ospedali, scuole ecc…), quasi inesistente.

Tutto nel Darfur è in stato di abbandono e qualsiasi progetto di un certo respiro è sacrificato alle spese di una guerra che, nell’arco di quasi tre lustri, è costata più di 60 miliardi di dollari.

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Le violenze nel Darfur

Le violenze nel Darfur

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