GEOSTRATEGIA DOPO L’ATTACCO DELL’11 SETTEMBRE 2001

GEOSTRATEGIA DOPO L’ATTACCO DELL’11 SETTEMBRE 2001

La base navale americana di Guantanamo

La base navale americana di Guantanamo

Un’analisi geostrategica sulla attuale situazione del cosiddetto ‘caos costruttivo’ della politica americana. ONU e Unione Europea hanno realizzato un documento per definire la “strategia di prevenzione dell’estremismo violento” e lottare contro Daesh. Quale sarà?

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

L’implosione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS) fra il 1989 e il 1991 ha determinato la fine del confronto Est – Ovest e l’inizio del mondo unipolare a guida americana.

L’immaginario collettivo, sulla spinta di mirate campagne mediatiche, auspicava un futuro prossimo di pacificazione e progresso.

Tutto è cambiato 10 anni dopo, con gli attentati dell’11 settembre 2001.

Dalla “guerra fredda” si è passati alla “guerra al terrorismo” che giustificherà tutto, dalle iniziali guerre in Afghanistan (19 ottobre 2001) alla successiva in Iraq (marzo 2003), tuttora in corso, alle leggi emergenziali come il “Patriot Act”, spesso lesivo dei diritti civili, sino alla tortura nei centri detentivi di Guantanamo (Cuba) e Abu Ghraib (Iraq), alla consegna di sospetti terroristi nei Paesi disponibili a riceverli costringendoli a confessare reati anche con l’uso della violenza.

In altri termini, significa “de-umanizzare” il conflitto abdicando al rispetto dei valori propri dell’Occidente e dei suoi alleati.

Mentre le guerre in atto continuano ad aumentare, dalla Libia, a febbraio 2011, alla Siria, da marzo 2011, al Mali dal gennaio 2012, il terrorismo non si è mai fermato.

E’ anzi in crescita esponenziale nei Paesi del Maghreb e del Mashraq soprattutto per la tenuta di Al Qaeda e l’emersione della formazione di Daesh (Al Dawla al Islamiyyah fi al Iraq wa al Sham) definito “Stato Islamico” dal leader Abu Bakr al Ibrahim al Baghdadi, autoproclamatosi Califfato con network spazianti dal Medio Oriente all’Asia, al Bangladesh, alle Filippine.

ONU e Unione Europea hanno realizzato un documento per definire la “strategia di prevenzione dell’estremismo violento” e lottare contro Daesh.

La documentazione sarà sottoposta all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 30 giugno e il 1° luglio.

I documenti già disponibili sono quelli del Segretario generale ONU, del Comitato 1373 di lotta anti-terrorismo, della Squadra di sostegno analitico e di monitoraggio sulle sanzioni, del Servizio d’azione esterna dell’Unione Europea.

La lettura non indica alcun piano di battaglia ma si rivela un elaborato politico.

In sostanza, ONU ed EU si basano esclusivamente su fonti occidentali non presenti sul territorio e mai vengono citate le informazioni trasmesse da Iraq, Siria, Russia, pur se sono state consegnate al C.d.S. dagli ambasciatori Mohamed Alì Al-Hakim, Bashr Ja’afari e Vitaly Churkin, e sono liberamente consultabili.

La Siria e l’Iraq hanno fornito quotidianamente informazioni sui trasferimenti di denaro, armi e di jihadisti, mentre la Russia ha inviato cinque relazioni sulle seguenti tematiche: commercio illegale di idrocarburi; reclutamento di combattenti terroristi stranieri; traffico di antichi reperti; consegne di armi e munizioni; componenti destinate alla fabbricazione di ordigni esplosivi improvvisati.

Questi documenti accusano direttamente Arabia Saudita, Qatar e Turchia – alleati di Washington – che hanno smentito senza mai discutere sulle accuse.

In realtà, come più volte scritto, Daesh è funzionale agli obiettivi della strategia USA del “caos costruttivo” creando la guerra civile sunniti-sciiti in Iraq; la suddivisione dell’Iraq in tre parti federate; interruzione della strada dall’Iran al Libano; rovesciamento del regime Assad in Siria.

Sorprendentemente, il segretario generale dell’ONU, Ban Ki-moon, attribuisce alla Coalizione a guida USA le vittorie ottenute dagli eserciti iracheni e siriani, sostenuti da Hezb’Allah libanese, curdi dei Comitati popolari (JPG), forze speciali iraniane e sostegno dell’aeronautica russa.

Il risultato di quindici anni di “guerra contro il terrore” consisterebbe nell’aver ucciso oltre 1,5 milioni di civili, dai 65 ai 90 mila terroristi e dover non più combattere il terrorismo diffuso di Al Qaeda ma uno Stato terrorista, Daesh.

Sorprende anche che al Qaeda passi da essere una minaccia addirittura ad alleato, a seconda dei casi: Al Qaeda ha potuto finanziare l’AKP in Turchia, aiutare la NATO a rovesciare Gheddafi in Libia e attaccare la Siria, restando nella lista USA delle organizzazioni terroristiche.

Contesto utile a comprendere il ruolo dei 4 Inviati Speciali ONU in Siria, Libia, Yemen (teatri di guerra) e Sahara Occidentale.

Questo ultimo è retaggio dell’epoca coloniale e non se ne vede la soluzione.

La Libia, dove USA, Gran Bretagna e Francia hanno scatenato la guerra per parcellizzare il Paese e appropriarsi delle ingenti risorse energetiche ed economiche, è nel caos, di fatto divisa in Cirenaica, Tripolitania e Fezzan, con tre Governi in atto, centinaia di milizie fuori controllo e USA, Gran Bretagna, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Francia, da mesi impegnati sul terreno contro Daesh in espansione a Sirte.

Di fatto, Daesh, inizialmente costituita dai residuali baathisti iracheni in Iraq e poi passata in Siria, si è stabilizzata in Cirenaica.

Nello Yemen, l’Arabia Saudita è supportata da una vasta coalizione e gode dell’aiuto israeliano in chiave anti-Iran e sciiti.

In Siria, gli Inviati Speciali hanno ormai lasciato i negoziati di Ginevra 3 senza ottenere alcun risultato, come del resto negli altri tre Paesi su indicati.

E’ ipotizzabile che le crisi potrebbero risolversi meglio attraverso negoziati diretti fra i contendenti, come accaduto nel 1979 con Sadat in Egitto dopo la guerra del ‘73 con Israele (viceversa, il Sinai sarebbe ancora sotto controllo di Tel Aviv) e nel 1994 con Abdallah II in Giordania con Israele dopo gli Accordi di Oslo del 1993.

E’ ipotizzabile che se una parte delle Alture del Golan è ancora nelle mani israeliani è per il negoziato multipolare fra i due contendenti, come anche che senza i mediatori statunitensi sulla crisi con Israele, i palestinesi sarebbero riusciti a raggiungere dal 1948 un qualche risultato.

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L'ambasciatore dell'Iraq presso le Nazioni Unite, Mohamed-ali-alhakim

L’ambasciatore dell’Iraq presso le Nazioni Unite, Mohamed-ali-alhakim

 

 

 

 

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