L’Europa guarda con qualche apprensione alla Tunisia che sembra essere riuscita ad avere una seria ‘primavera araba’. I recenti attacchi a turisti stranieri e alla polizia locale, anche con il chiaro intento di soffocare economicamente il Paese seccando la fonte principale di risorse, il turismo, dimostrano che molto fuoco è ancora sotto la brace…il coprifuoco non depone bene anche se necessario.
Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini
La Tunisia che aveva colto la scintilla rivoluzionaria dal movimento saharawi dell’ottobre 2010 in protesta contro l’occupazione marocchina del West Africa e avviato due mesi dopo le rivolte nell’intero arco mediterraneo è diventata il serbatoio di alimentazione dei foreign fighters.
Secondo i più recenti dati, il numero dei combattenti stranieri tunisini diretti in Libia, Siria e Iraq è di oltre 5 mila, davanti ad Arabia Saudita con 3 mila, Giordania con 2 mila, Russia e Francia con 1,5, Libano e Turchia con 1,2, Gran Bretagna e Germania con poco più di mille.
Cosa accade, cosa è accaduto in Tunisia per trasformare giovani e non, in grado di mobilitare oceaniche manifestazioni e disarmate per chiedere rispetto dei diritti civili, istruzione, sanità e lavoro ?
Poteva essere stato raggiunto il punto di scontro fra due mondi antitetici opponendo, da un lato, leadership senescenti che occupavano tutti i gangli dell’economia e favorivano corruzione proteggendosi con apparati di sicurezza autorizzati a ogni abuso e, dall’altro, milioni di giovani accomunati da disoccupazione, senza futuro, costretti a vivere sotto la soglia di povertà (meno di 2 dollari al giorno), deprivati delle libertà fondamentali e oppressi da misure repressive feroci?
In realtà, sin dalla caduta del regime di Zine El-Abdine Bel Alì del gennaio 2011 e la vittoria alle elezioni nello stesso anno del partito Islamico Ennahda di Rashid Gannouchi, la nuova classe politica non è stata in grado di dare alcun segnale di discontinuità rispetto al precedente regime sugli ideali che hanno ispirato la rivolta né sul piano della sicurezza né sul livello socio-economico.
Sul primo punto, la leadership dei Fratelli Musulmani, teorica dell’ “interpretazione evolutiva di Corano e Hadit del Profeta“ non assume alcuna iniziativa nei confronti del crescente radicalismo dei gruppi salafiti sempre più vicini alle formazioni jihadiste libiche del dopo Gheddafi, sino a diventare l’area di maggiore reclutamento di foreign fighters per Daesh, con significative presenze in Libia.
Sul secondo punto, nel Paese che ha riconosciuto il diritto di voto alle donne persino prima della democratica Confederazione Elvetica, il nuovo governo perde di vista l’obiettivo di garante dei diritti civili e socio-economici e di re-distributore delle ricchezze e dei poteri per una maggiore uguaglianza sociale. E’ lo stesso Istituto Nazionale di Statistica e rilevare che nel 2010 la disoccupazione si attestava sul 13%, e 3 anni dopo era salita al 16%.
Come in passato, la rivolta del 2011 inizia nelle regioni dell’entroterra e del Sud con il più alto tasso di disoccupazione e i più bassi livelli di crescita e di benessere: Kasserine, Gafsa, Sidi Bouzid, Siliana.
Eppure disoccupazione, povertà, analfabetismo, mancanza d’infrastrutture, inquinamento, sfruttamento delle risorse e delle popolazioni locali e disuguaglianze sociali erano i temi e gli obiettivi di una classe politica d’islamici che per quaranta anni avevano sopportato prigione e torture ma erano riusciti a conquistare i voti popolari per la vicinanza ai ceti deboli attraverso organizzazioni assistenziali spesso clandestine.
Dal 2012, manifestazioni e proteste incentrate sugli stessi temi e nelle stesse aeree si rivolgono verso movimenti ed esponenti politici laici che ripropongono una rinascita economico-sociale.
Per questi motivi, le nuove elezioni di marzo 2013 premiano il partito laico Nidaa Tounes di Béji Caid Essebsi.
Dopo una nuova fase di crisi, a febbraio 2015 i due poli avversari, Nidaa Tounes, autoproclamatasi erede di Habib Bourguiba e contraria all’egemonia islamica, ed Ennahda danno vita a una coalizione governativa anche a seguito di sollecitazione dei partner stranieri USA, Europa e Algeria.
L’attentato al Museo del Bardo di marzo 2015 con un bilancio di ventuno turisti uccisi e rivendicato da Daesh, spinge la Tunisia a richiedere e aderire a luglio dello stesso anno all’ “Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord” (NATO), di cui diviene ufficialmente partner strategico soprattutto in chiave anti-terrorismo, sia per l’osmosi fra i jihadisti tunisini nella destabilizzata Libia, sia per la preoccupante evoluzione della presenza di Daesh a Sirte, Benghasi e nelle aree ricche di fonti energetiche di Ras Lanouf, Ajdabiya, Defa, Amak e Messle.
Il perdurante caos in Libia, sorda a ogni iniziativa della Comunità Internazionale per superare la crisi attraverso la formazione di un governo di unità nazionale, e la preparazione da parte della NATO di un altro attacco alla Libia nonostante il disastro provocato nel 2011 nell’intera regione, rischiano però di avere effetti ancora più devastanti oltre che in Tunisia anche nelle già destabilizzate aree del Sahel e sub-sahariane sino al Corno d’Africa.
In tale contesto, il nuovo governo tunisino non è ancora riuscito a rendere esecutive le riforme sul settore bancario, firmata a luglio, e l’introduzione di una partnership pubblico-privato, firmata a dicembre, mentre l’economia “sommersa” sarebbe arrivata al 53%, secondo i dati del ministero delle finanze. In più, vengono meno gli accordi fra le tribù libiche che dovrebbero contribuire a stabilizzare il controllo frontaliero.
Di fatto, nel nuovo governo si scontrano due posizioni opposte.
Da un lato, Nidaa Tounes, che dopo aver deluso l’intera ala laica per l’accordo con gli islamici, mostra inadeguatezza sul piano della sicurezza dopo gli ulteriori attentati di Daesh a giugno all’Hotel di Sousse, con trentanove turisti uccisi, e a novembre a Tunisi con l’esplosione di un autobus pieno di agenti di cui con dodici restano uccisi.
Il ministero dell’interno è sotto accusa per la mancata procedura di disciplina interna che consente la perpetuazione di un regime di polizia con maltrattamenti, torture, estorsioni che restano impuniti sotto l’ombrello alla “lotta contro il terrorismo”.
In questo quadro rientrano anche le deboli figure del premier designato, Habib Essid, e lo stesso Parlamento, in realtà privi di potere decisionale.
Il partito che aveva attratto sinistra, sindacati, e quadri dell’ex Raggruppamento costituzionale democratico RCD) dell’ex presidente Bel Alì è attraversato da spaccature, evidenziate dal declino del segretario generale, Mohsen Marzouk, sostituito dal figlio del capo dello Stato, Hafeh Caid Essebsi, sostenuto da consiglieri vicini al presidente, coordinatori regionali ed ex esponenti del “clan” di Ben Alì. Non mancano le rivalità per la gestione dei grandi patrimoni e i clan economici di Tunisi, Sousse e Sfax.
In sintesi, Nidaa Tounes ha abbandonato i quartieri popolari, non conosce più le periferie, finendo con il privilegiare quell’approccio elitario e corrotto del regime scacciato.
Dall’altro canto, Ennahda prepara il 10°Congresso nei primi mesi dell’anno per un rinnovamento dottrinale e strategico con l’obiettivo di trasformare un partito in passato clandestino e perseguitato in un partito di governo. Il punto debole di Ennahda resta la diffidenza degli avversari politici sulla posizione che assumeranno nei confronti dei salafiti ultraradicali.
Soprattutto viene contestata al movimento islamico la responsabilità quando al potere negli anni 2012 e 2013 non fatto nulla nei confronti della dilagante ondata jihadista dei salafiti sino alle uccisioni del dirigente politico di sinistra Chokri Benlaid a febbraio 2012 e dell’esponente politico Mohamed Brahmi a ottobre del 2013.
In prospettiva è difficile ipotizzare una nuova rete di respiro nazionale con risorse economiche e popolari in grado di oltrepassare gli errori dei governi precedenti per affrontare il futuro prossimo venturo con il problema libico alle porte.
Probabilmente con l’aggravarsi della situazione libica, vi sarà il ritorno di una leadership non dissimile dal vecchio regime di Ben Alì che dietro la lotta contro il terrorismo imporrà i vecchi metodi e faciliterà il ritorno dei quadri di allora.
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