LE CRISI E LE ARMI. Sintomi di un nuovo colonialismo?

LE CRISI E LE ARMI. Sintomi di un nuovo colonialismo?

Il 'sogno' dell'ISIS?

Il ‘sogno’ dell’ISIS?

Un nuovo colonialismo basato sulle armi con l’unico scopo di sfruttare le loro risorse naturali di ricchi territorio e mantenerne il controllo?      

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

La spesa per gli armamenti anche in questi ultimi sette anni di crisi economica è un segnale di discontinuità che invita a riflettere.

E la riflessione si trasforma in dubbio incrociando i dati dei più importanti Centri di studio in materia: Jane’s Information Group, israeliano, del febbraio 2014, International Institute for Strategic Studies, britannico, del marzo 2015, Stockholm International Research Institute, svedese, dell’aprile 2015.

Emerge che non solo America, Asia, Europa, Russia e ricche monarchie mediorientali ma anche Paesi dell’Africa sub-sahariana fra i più poveri del mondo presentano una costante crescita delle spese militari.

La domanda è: perché Stati con significativi problemi socio-economici e alti indici di povertà utilizzano il modesto bilancio per acquistare armi e non per mettere in sicurezza la popolazione dalle cicliche crisi umanitarie che si presentano?

Il dubbio è che forse quelle guerre nascono da oligarchie interessate a tutelare i loro privilegi e armano milizie per annichilire ogni capacità reattiva della popolazione con l’assistenza e complicità della potenza egemone sul territorio: Cina, Francia, Gran Bretagna, Monarchie del Golfo.

I dati

Per l’anno 2014 il costo complessivo degli armamenti è calcolato in 1.550 miliardi di dollari secondo JIG e IISS mentre SIPRI lo valuta di oltre 1.800.

I tre studi concordano sul fatto che la spesa è risalita a un livello superiore a quello dell’ultimo periodo della “guerra fredda” e prevedono ulteriori sensibili aumenti.

Nella statistica del SIPRI, la spesa degli Stati Uniti è di 900 miliardi di dollari per lo più impegnati nei conflitti dopo l’11 settembre 2001 iniziati con la guerra in Afghanistan. Dopo si collocano Cina e Russia con 85. Seguono Arabia Saudita, Francia, Gran Bretagna, India, Germania, Giappone, Corea del Sud, Brasile, Italia, Australia, Emirati Arabi Uniti, Turchia.

E’ significativo l’aumento delle spese militari di alcuni Paesi negli ultimi due anni 2013-2014: Russia e Cina presentano un aumento, rispettivamente, dell’8,1% e del 9,7%; aumenti maggiori registrano Polonia 13%, Paraguay 13%, Arabia Saudita 17%, Afghanistan 20%, Ucraina 23%, Repubblica del Congo 88%. Gli aumenti maggiori si verificano nel continente asiatico con il 22,3%, pari al 22% della spesa globale.

Il maggior spenditore è la Cina con 140 miliardi di dollari e che, per mantenere l’egemonia sul Mar Cinese rispetto a Giappone e USA, programma maggiori investimenti per il 2015.

Al secondo posto, dopo gli USA, la Cina investe più di Germania, Gran Bretagna e Francia mentre la crisi delle isole Senkaku spinge i Paesi dell’area ad aumentare le spese militari.

Seguono il Giappone, che ha contenziosi con Pechino, con 57 miliardi (5°), l’ India, per gli irrisolti problemi con gli indipendentisti con 46 (7°), la Corea del Sud che deve fronteggiare la Corea del Nord, e infine Australia, Indonesia, e Singapore.

L'industria delle armi prolifera...

L’industria delle armi prolifera…

Altro focolaio è il Medio Oriente, dove attori esterni interessati a impadronirsi di materie prime e risorse energetiche hanno dato avvio a guerre ancora in corso come dimostrano Iraq (2003), Libia (2011), Mali (2014), Yemen (2015).

E’ l’area in cui quattro su cinque bilanci militari continuano a crescere di più nel 2014 con il picco in Arabia Saudita il cui budget è salito negli ultimi dieci anni del 300% e che con 81 miliardi di spesa nel 2014 ha il 4° posto nel mondo. Con 9,2 miliardi, l’Oman registra un aumento del 35,72%, più dell’Iraq con un incremento del 32,39% e del Bahrein con il 28,72%.

E’ singolare che l’Arabia Saudita sia vicino in termini di budget militare l’India, che ha oltre 1 miliardo di abitanti. Quale è allora il senso di questa corsa agli armamenti guidata da Riyadh?

Il fatto è che l’Arabia Saudita vede nella teocrazia dell’Iran la minaccia esiziale per il suo sistema di Paese. E quindi questo Paese polarizza nel mondo islamico la contrapposizione sunniti/sciiti, scatenando guerre che da un lato insanguinano il Medioriente e dall’altro attraggono Paesi come USA, Gran Bretagna e Francia solleciti a sostenere i sauditi e a firmare contratti miliardari per la fornitura di armi.

Così nasce la guerra nello Yemen, dove la Comunità Internazionale vede quel colpo di Stato del gennaio 2015 ma non vede quello del 3 luglio 2013 in Egitto e anzi lo supporta per la guerra in Libia a fianco del golpista Khalifa Afthar.

In nome della “guerra al terrorismo”, che si alterna all’“intervento umanitario”, gli Usa, con un contratto di 30 miliardi di dollari del 2011 nel contesto di un più ampio contratto da 60, forniscono all’Arabia Saudita 84 nuovi F 15, con armamento di bombe – anche a grappolo – e missili, mentre sollecitamente procede all’aggiornamento di altri 70.

Mentre nello Yemen continua la guerra, le navi americane pattugliano i 27 chilometri dello stretto di Bab al-Mandab tra Arabia e Africa da dove passano le rotte petrolifere e commerciali fra l’Oceano indiano e il Mediterraneo.

Israele, nel rapporto JIG, rimane a 13 miliardi di dollari come spesa “ufficiale”, che non tiene conto dei rifornimenti ottenuti attraverso una miriade di canali di aiuti militari, collaborazioni e partnership privilegiate, continuamente incrementate da oltre 60 anni.

A parte si pone Europa dell’Est, con Mosca e Washington, per la crisi in Ucraina iniziata nel 2014.

La Russia installa missili Iskander a Kaliningrad, nel cuore dell’Europa, una nuova difesa aerea; ha un progetto di ammodernamento delle Forze Armate e svolge un grande attivismo in Armenia e nell’Asia centrale.

Con 69 miliardi di spesa nel 2014, è 3° Paese al mondo, con un aumento del 15,7% rispetto al 2013 e un programma triennale per l’aumento del 44% delle spese militari, a detrimento delle infrastrutture che come quelle per l’industria estrattiva necessitano di investimenti.

Di fatto, l’immediato appoggio americano all’Ucraina dopo il colpo di Stato del febbraio 2014 dà inizio a un’altra guerra spingendo diverse Nazioni dell’Est europeo a una nuova contrapposizione, con pesante presenza della NATO.

La Russia parla apertamente di un colpo di Stato pianificato dagli USA e trova immediata eco in George Friedman, fondatore e amministratore di Stratfor.

Le armi...

Le armi…

Friedam dichiara che gli USA avrebbero deciso di intervenire dopo i successi della Russia nella regione mediorientale a favore del Presidente siriano Bashar Assad mentre gli americani hanno appoggiato sin dal 2011 l’opposizione armata contro il regime.

Inoltre, sin dal 2012 Mosca sostiene il nucleare iraniano, sul quale solo ad aprile 2014 nel negoziato dell’Iran con il “ G 5 P + 1” (i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza ONU, più la Germania) è stata raggiunta una bozza d’intesa, ancora al vaglio del Congresso, che determinerà solo il 30 giugno se l’Accordo c’è o no.

Per quanto riguarda la corsa all’armamento, gli USA ufficialmente avrebbero ridotto il loro budget passando dal 47% del 2010 al 38% del 2014. Anche la statistica diventa un’opinione se non si tiene conto di tutti i fattori.

In realtà le voci ridimensionate riguardano le “Overseas Contingency Operations” (OCO), cioè quelle portate avanti in Iraq e Afghanistan, che hanno comportato enormi esborsi di danaro verso industrie, società di servizi e lobbies quasi tutte americane.

Cessate quelle operazioni – anche se concretamente non lo sono affatto e in Afghanistan resteranno i militari che erano in procinto di lasciare – la spesa per armamenti nel 2014 è di 581 miliardi di dollari, superando quella dei successivi 10 maggiori bilanci militari al mondo e 4 volte quella della Cina.

L’obiettivo è quello di preservare l’unilateralismo mondiale a guida USA dopo l’implosione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche del 1989-1991, anche in presenza di un mondo multipolare a geometrie variabili a seconda delle alleanze di comodo.

I dati più stupefacenti sono quelli inerenti alla persistente crescita in termini percentuali delle spese militari nel Paesi dell’Africa sub-sahariana, a partire dall’Angola che registra un aumento del budget del 174% negli ultimi 10 anni.

Anche per altri Stati, le spese militari sono enormi come per la zona dei Grandi Laghi, in perenne crisi per assicurarsi lo sfruttamento delle risorse del Kiwu, e per le altre regioni orientali della Repubblica Democratica del Congo.

In simbiosi con le multinazionali, i dittatori di turno possono contare su assistenza e complicità della potenza egemone sul campo: Cina, Francia, Gran Bretagna, Monarchie del Golfo, USA.

Si tratta del nuovo colonialismo, quello economico, presente soprattutto negli Stati con drammatiche crisi umanitarie, fame, carestie, sottosviluppo endemico e cronica mancanza di infrastrutture.

Stati falliti o sempre in difficoltà che rimangono sottoposti agli interessi delle potenze occidentali che hanno l’unico scopo di sfruttarne le loro risorse naturali e mantenerne il controllo.

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