L’importanza e l’influenza del movimento Al Shabaab in una regione ben conosciuta dall’Italia
Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini
La violenza e l’insicurezza della Somalia sembra proiettarsi a cascata al di fuori dei suoi confini attraverso la pirateria, il traffico d’armi, di esseri umani e il terrorismo. Il debole governo di transizione a Mogadiscio è sostenuto da una forza di pace dell’Unione Africana, che non è in grado di esercitare la propria influenza al di fuori della capitale ed è continuamente soggetta al pericolo di abbattimento da parte dei ribelli islamici.
L’espressione dell’estremismo islamico nel Paese è costituito da Al-Shabaab (حركة الشباب المجاهدين, Ḥarakat ash-Shabāb al-Mujāhidīn, in Somalo Xarakada Mujaahidiinta Alshabaab, Partito della Gioventù). Nato a Mogadiscio nel 1990 con la funzione di milizia del tribunale della Sharia, il movimento ha servito come ala militare dell’Unione delle Corti Islamiche contro l’intervento Etiope del 2006.
I leader dell’organizzazione sono jihadisti di provata esperienza, alcuni dei quali hanno servito come mujaheddin durante l’occupazione sovietica dell’Afghanistan. Fino all’intervento Etiope, il gruppo ha risposto a Hassan Dahir Aweys, una figura importante all’interno dell’Unione delle Corti Islamiche, una figura ultraradicale i cui scopi non abbracciavano la jihad oltre i confini del Paese.
Nel 2005 si pensava che Al Shabaab includesse circa 400 miliziani e con tutta probabilità costituisse il nervo delle Corti Islamiche a Mogadiscio. Durante questo periodo, la capitale, devastata e impoverita, era ancora divisa in piccoli feudi sotto il controllo dei signori della guerra, di uomini d’affari e islamisti armati.
Guidata fino al 2008 da Aden Hashi Farah Ayro (in somalo: Aaden Xaashi Faarax Ceyroow, Arabo: عدن هاشي فرح), leader d’indubbie capacità militari con esperienze pregresse in Afghanistan, ha avuto un ruolo chiave nel contrasto alle forze statunitensi ed etiopi. E’ proprio in quest’arco temporale che inizia il percorso verso un’affiliazione con al-Qaeda, deviando da quelli che erano gli obiettivi originari del gruppo dettati da Aweys.
Dall’intervento del 2006 in poi, Al Shabaab si è rapidamente proposta come il gruppo di riferimento per tutti coloro che vedono nelle forze dell’Unione Africana un esercito d’occupazione, configurandosi quindi come un vero e proprio esercito di liberazione che, con alterne vicende, sembra comunque mantenere un’assoluta posizione di forza nella regioni intorno a Mogadiscio e nelle zone meridionali del Paese, costituendo de facto l’unica e vera realtà amministrativa sul territorio.
La struttura di Al Shabaab è importante per capire come il gruppo opera e per comprendere la natura del suo COG (Centro di Gravità Militare). I leader dell’organizzazione sono membri di un Consiglio della Shura. Il loro numero è attualmente sconosciuto. L’ “assemblea” detta quelle che sono le politiche di Al Shabaab nei territori sotto il suo dominio e nomina le amministrazioni locali che sono obbligate a rispettare questa politica. Il gruppo, come si evince dalla sua storia, ha sempre avuto interesse a instaurare la sharia solamente all’interno del territorio somalo. Dal 2012 si sono materializzate divisioni interne della leadership, quando il gruppo ha iniziato ad allinearsi pubblicamente con al Qaeda e la rete della jihad globale sotto la spinta di Ahmed Abdi Godane (Mukhtar Abu Zubair). Ucciso il 1 settembre del 2014 a seguito di un raid operato dagli Stati Uniti, grazie all’utilizzo di un drone armato di AGM-114 Hellfire, è stato sostituito alla guida del gruppo da Ahmad Umar (Abu Ubaidah). Il nuovo leader è membro della minoranza Dir (در) originario dalla città somala di Luq nella regione Gedo, vicino al confine con l’Etiopia. Il NISA (Somalia’s National Intelligence and Security Agency) nel settembre del 2014, ha emesso sull’attuale capo dell’organizzazione somala una taglia di 2 milioni di dollari istituita.
Dopo la fase più complessa dalla sua nascita, ovvero, il periodo di lotte interne legate anche alla caduta di Kisimayo nell’ottobre 2012, il movimento sembra aver ritrovato nuova linfa dando una dimostrazione di forza nei confronti delle altre organizzazioni terroristiche legate ad Al Qaeda, grazie ad azioni come l’attentato del Westgate Mall di Nairobi del 2013 e l’assalto del 2 aprile 2015 al campus universitario di Garissa nell’Est del Kenya al confine con la Somalia.
Come nell’attacco al centro commerciale di Nairobi, il commando dei terroristi ha ripreso la sua campagna, ripercorrendo lo stesso modus operandi, cioè rinunciando alla dottrina del Takfiri (“empietà massima” o apostasia, che autorizza l’autorità costituita ad infliggere la condanna a morte) nei confronti dei musulmani e concentrandosi esclusivamente su ostaggi di confessione cristiana.
La percezione che deriva da questo nuovo attacco, è che si debba considerare il problema di Al Shabaab non più come un problema solo somalo ma soprattutto keniota. Il fatto che in un intervallo temporale di un anno e mezzo siano stati colpiti dal gruppo somalo obiettivi nel territorio del Paese confinante, mostra non solo l’inadeguatezza dei servizi di sicurezza di Nairobi, ma che il confine tra il Kenya e la Somalia appare come una membrana permeabile, dalla quale i miliziani Somali possono introdursi nel Paese e portare a compimento attacchi contro obiettivi sensibili quasi come se non esistessero linee di demarcazione.
Un’analisi più attenta della situazione del Kenya fa altresì dedurre che il problema della presenza di Al Shabaab nel Paese non è dovuta alla sola labilità dei confini, ma anche alla discreta presenza di campi profughi somali all’interno del Paese. Questa presenza garantisce agli appartenenti alle Cellule Jihadiste la possibilità di occultarsi e di poter ottenere informazioni in loco sugli obiettivi da colpire, per poi pianificare con una discreta calma l’azione vera e propria. Le difficoltà del NIS (Kenya National Intelligence Service) nel penetrare le cellule di Al Shabaab sembra nascondersi proprio nella difficoltà di poter intercettare il flusso dei corrieri che dalle stazioni somale si muove verso il Kenya.
Lo Yemen, seppur attraversa una fase di scontri interni, da sempre gioca un ruolo importante in Somalia e nel Corno d’Africa. Le organizzazioni terroristiche come Al Shabaab si nutrono di quelli che sono i profitti derivati dal crimine organizzato che coinvolge i due Paesi; il traffico di esseri umani, il contrabbando di gasolio e di armi e la pirateria sono tra le fonti di approvvigionamento più redditizie per il gruppo Somalo. Questa situazione è favorita dal governo di Sana’a’, che è l’unico a concedere asilo con lo status di rifugiato politico ai Somali; secondo alcune stime ci sarebbero circa 200.000 somali nel Paese. A seguito dei crescenti problemi del Paese, le autorità yemenite hanno dichiarato la loro intenzione di fare di più per frenare la migrazione dei Somali cercando di attuare una politica di rimpatrio, ma ciò sembra essere più una misura di propaganda intenzionata a mettere in luce l’impegno dello Yemen nella lotta al terrorismo che un proposito concreto.
Emerge ormai in modo palese che la presenza delle forze di sicurezza occidentali in regioni strategiche dell’area come Gibuti non sembra avere una significativa influenza sulla ricomposizione delle varie crisi nel Corno d’Africa.
L’apporto dell’intelligence in questa zona è fondamentale e non può essere demandato solamente alle fonti SIGINT (Signal Intelligence) garantita da UAV (unmanned aerial vehicle) come il RQ-4 Global Hawk per il monitoraggio o il MQ-9 Reaper per le operazioni di killing targeting. In una regione che appare simile a un caleidoscopio culturale ed etnico, non si può prescindere da un maggior utilizzo di uno HUMINT(Human Intelligence) in grado di comprendere le dinamiche sociologiche dell’area. Il contrasto al flusso dei foreign fighters jihadisti presenti nella regione a seguito della campagna di ISIS (Stato Islamico dell’Iraq e della Siria) in Siria e Iraq e dell’afflusso di denaro proveniente da alcuni Paesi del Golfo a sostegno delle organizzazioni jihadiste, appare come priorità nella lotta all’estremismo islamico nell’Africa Orientale. Nell’attentato di Garissa si nasconde un ennesimo tentativo di allargare il conflitto jihadista a tutta l’area, con l’obiettivo di creare un collegamento tra l’organizzazione terroristica somala e quelle che operano nell’Africa Sub Sahariana e nel Golfo di Guinea.
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