La vita e le ‘opere’ di Abdelhakim Belhadj, poco conosciuto al grande pubblico ma ben noto agli addetti ai lavori
Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini
A mio Padre
Abdelhakim Belhadj (عبد الحكيم بالحاج, nome di battaglia Abu Abdallah Assadaq) nasce il 1° maggio del 1966 nella zona di Suk el Giuma a 5 Km da Tripoli. Studia presso l’Al Fateh University, dove consegue una laurea in ingegneria civile. Gli anni successivi al completamento dei suoi studi li trascorre tra Sudan, Turchia, Pakistan, Siria, Iran, Londra e la Danimarca.
Ostile al regime del colonnello Gheddafi, Belhadj insieme a altri giovani islamisti della sua generazione è costretto a lasciare il Paese. Attraverso le organizzazioni assistenzialiste islamiche saudite raggiunge l’Afghanistan, dove nel 1988 diviene un Mujaheddin e combatte i sovietici.
Nel 1992, nel caos delle lotte per la conquista del Paese fra le varie fazioni Islamiche, lascia l’Afghanistan e visita gran parte del Medio Oriente e dell’Europa orientale, prima di tornare in Libia. Con altri ex combattenti libici fonda il Gruppo Combattente Islamico Libico (LIFG) che nel 1994 tenta rovesciare il regime del Colonnello. In questo periodo si fa chiamare Abu Abdullah al-Sadiq. Insieme al LIFG fomenta una campagna insurrezionale nella Libia orientale tentando per quattro volte di assassinare Gheddafi grazie anche all’appoggio dell’MI6 (Military Intelligence sezione 6). Nel 1998 il movimento è sconfitto dal Colonnello e i suoi leader tra cui Belhadj sono costretti alla macchia.
Braccato dalla polizia segreta libica, s’insedia in Afghanistan al seguito di Osama Bin Laden. Considerato l’emiro del Gruppo combattente islamico (ICG) in Libia, negli anni che vanno dalla sua fuga all’11 settembre 2001 costituisce e gestisce almeno due campi d’addestramento segreti in Afghanistan a una trentina di chilometri a nord da Kabul, dove l’ICG raccoglie volontari legati ad Al-Qaeda.
La giustizia spagnola lo sospetta di essere la mente degli attentati di Madrid dell’11 marzo 2004. E’ arrestato da una task force dei servizi americani e inglesi il 6 marzo 2004 in Malesia e trasferito via aerea (Boeing 737, codice di registrazione N313P) in una prigione segreta, probabilmente presso la stazione CIA di Bangkok. Durante la sua prigionia sarebbe stato sottoposto a interrogatori e torture secondo la tecnica di condizionamento del professor Seligman. In seguito a un accordo tra Washington e Tripoli è trasferito in Libia, dove si suppone sia stato nuovamente torturato, ma questa volta dai servizi britannici. In questo periodo è detenuto nel carcere di Abu Salim, dove il regime tratteneva i prigionieri politici, la maggior parte di loro provenienti della Cirenaica. Nel 2009 il regime libico sotto indicazione di Saif al-Islam, figlio di Gheddafi e suo delfino, intraprende una politica inaspettata di riconciliazione con l’IGC. Belhadj pubblica dal carcere un documento di 417 pagine chiamato “Studi correttivi per la Comprensione della Jihad, applicata alla morale e al giudizio del popolo” dove è presente una direttiva in cui viene indicato che la guerra santa contro Gheddafi è illegale, ma è consentita solo nei “Paesi musulmani invasi” (Afghanistan, Iraq, Palestina). Questo gli vale la grazia.
Liberato nel 2010, si rifugia in Qatar. Nel 2011, svolge un ruolo cruciale nel rovesciamento della Jamahiriya libica. E’ al comando di uno dei battaglioni più importanti di guerriglieri fin dall’inizio dell’insurrezione, ed è il primo a entrare a Tripoli con i ribelli dalle montagne di Nafusa. Il Consiglio nazionale di transizione lo nomina, su proposta della NATO (North Atlantic Treaty Organization) ma con riluttanza, Governatore militare di Tripoli ottenendo al contempo le scuse di Washington e Londra per il trattamento inflittogli durante gli anni di prigionia.
Alla fine del 2011 si reca in Siria per unirsi all’Esercito siriano libero, probabilmente con il sostegno dei servizi francesi, per organizzare le truppe insurrezionali e rovesciare il governo di Assad. E’ in questo periodo, verosimilmente, che si avvicina agli ambienti che porteranno alla nascita di ISIS (Stato Islamico della Siria e dell’Iraq). Torna ben presto in Libia, dove nel 2012 tenta la via della carriera politica attraverso la formazione di un suo partito politico Alwattan Party (حزب الوطن Ħizb al-Waṭan or Ħizb el-Waṭan) d’ispirazione conservatrice salafita legato ai fratelli Mussulmani e Al Salabi, lo stesso che negoziò con Saif al-Islam la sua liberazione. Nello stesso periodo conduce un’intensa attività d’intelligence e di reclutamento con la creazione di campi d’addestramento di Daesh (الدولة الإسلامية, al-Dawla al-Islāmiyya, Stato Islamico abbreviazione di ISIS) in Libia a Derna, Syrte e Sebrata, insieme a un ufficio in Tunisia a Djerba, ma nel caos regnante tra le diverse fazioni tribali sul territorio il progetto politico dell’Emiro dell’ICG naufraga ben presto.
E’ molto probabile che il leader libico abbia pensato, a giusta ragione, di poter riunificare le molte milizie islamiche e le varie tribù libiche utilizzando ISIS come un’etichetta con la quale poter creare una nuova entità statale.
E’ ipotizzabile, infatti, che ISIS sia organizzando similarmente alle strutture logistiche dell’antico impero Omayyade il quale era suddiviso su basi regionali. A suo modo l’organizzazione di Daesh ricalca quella di un vero stato organizzato istituzionalmente con: ministeri, un sistema di controllo dell’ordine pubblico, un proprio sistema detentivo e un esercito. La veste arancione che ricalca le tute dei prigionieri di Guantanamo, non è solamente una provocazione al mondo occidentale, ma una vera e propria divisa che indica lo status di prigioniero e quindi rinforza questa ipotesi. All’interno dello stato islamico, inoltre, sono presenti tutti i tipi di servizi esistenti in un’entità nazionale: dalle istituzioni preposte alle forniture dei servizi più elementari a quelle dell’informazione televisiva. A tal proposito, i filmati prodotti da ISIS sono di ottima qualità e realizzati con sistemi simili a quelli dei media occidentali.
La leadership del Colonnello non permetteva delle vere e proprie strutture istituzionali sul territorio libico. La quasi totalità della macchina statale libica passava per le decisioni dell’ex Rais e la lealtà delle numerose tribù era garantita dai soldi derivati dalle rendite petrolifere.
I gruppi etnici Libici non sono composti solo da tribù, ma anche da una forte componente berbera ovvero abitanti indigeni della zona del Sahara. Il loro numero è difficile da accertare dal momento che queste popolazioni non sono mai state pienamente incluse in un qualsiasi censimento. Tuttavia, è stato ampiamente valutato che i berberi costituiscono tra il 10% e il 23% della popolazione libica, quindi assumendo una media del 17%, il risultato sarebbe poco meno di un milione. La maggior parte sono affiliati al khariji una setta ibadita dell’Islam, che è stata adottata come religione durante la conversione forzata avvenuta con la conquista araba durante VIII secolo d.C. L’Islam ibadita derivato dal Kharigismo è un Islam di tipo moderato ed aperto alle nuove popolazioni. Fu per questo che i Berberi lo adottarono e si diffuse velocemente nel Nord Africa.
L’unica normativa a essere ritenuta sacra e superiore a quella degli uomini per i seguaci dell’Islam, è quella coranica. Elemento costituente di un Paese Islamico. Tale considerazione sposta il centro di gravità di uno Stato sull’elemento teocratico. E’ proprio questo fattore che sembra ricompattare le forze intorno a Belhadj, che è conscio di quanto il fattore teo-assistenzialistico e bellico sia fondamentale per esercitare il potere in Libia e canalizzare le milizie verso un vero e proprio esercito. Del resto il COG (Centro di Gravità Militare) dell’ISIS è flessibile e grazie all’elemento catalizzante teo-statuario riesce ad attrarre da sempre le piccole formazioni jihadiste per riproporle come una vera e propria armata che mantiene comunque l’elasticità tattica delle formazioni guerrigliere.
Sarebbe pertanto auspicabile un approccio volto a stabilire una comunicazione con il leader libico. La sua storia personale degli ultimi anni, infatti, sembra suggerire un interesse posto alla conquista del potere attraverso la stabilizzazione del Paese contro i residui del vecchio regime e attraverso il manifesto di ISIS. In definitiva, a Daesh serve un leader carismatico quale Belahdj per operare in teatro e proporsi come un’alternativa alla corruzione e al caos delle milizie. A sua volta, al leader libico serve uno strumento aggregatore attraverso cui poter acquisire e consolidare una leadership incontrastata nel Paese.
Giocare sui tempi d’azione risulterà determinante. Una volta che Daesh e Belhadj avranno ritenuto di aver finalizzato i propri interessi, il leader potrebbe trovarsi in una situazione scomoda e quindi decidere di liberarsi dal fardello di ISIS, per poter essere riconosciuto a livello internazionale come unico referente in questo teatro. A sua volta però potrebbe rischiare la defenestrazione da parte dell’ISIS, che sentendosi tradito e avendo ormai il controllo del territorio potrebbe ritenere superflua la presenza di Belhadj. E’ per tale motivo che non ostacolare una sua leadership, se sostenuta da efficaci garanzie in termini economico-sociali e di controllo del territorio, potrebbe portare alla stabilizzazione dell’intero Paese. In una strategia di lungo periodo, intervenire in ausilio del leader libico qualora decidesse di abbandonare ISIS, potrebbe ricostituire quelle guarentigie prerivoluzionarie dell’approvvigionamento energetico e dei flussi migratori che gioverebbero all’interesse nazionale.
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