Turchia: un Paese sempre meno “occidentale” in politica estera

Turchia: un Paese sempre meno “occidentale” in politica estera

La Turchia è molto importante nel quadro geopolitico mediterraneo e mediorientale e in questo periodo la sua ‘anima’ ‘occidentale’ è veramente in secondo piano. E poi: la politica estera della Turchia, la posizione del presidente Erdogan, la questione dei curdi, Kobane, il Muro lungo il confine con la Siria per garantire la sicurezza dei confini

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini 

In questi ultimi tempi l’interesse dell’opinione pubblica per l’ISIS, – Califfato di Abu Bakr el Baghdadi – e per ciò che sta succedendo in Iraq e in Siria, si sta facendo sempre più marcato. Un’attenzione crescente non più confinata nelle riviste specialistiche e nelle conferenze degli addetti ai lavori, ma che trova sempre più spazio nei quotidiani e nei programmi televisivi, normalmente scevri da notizie di politica estera.

Un’attenzione particolare è dedicata alla Turchia e al suo ruolo nella regione mediorientale. La Turchia sembra aver abbandonato la sua aspirazione di diventare un membro a pieno titolo di un’Europa in crisi non solo da un punto di vista economico e sociale, ma anche politico ed identitario.

Un’Europa che, negli ultimi anni, non si è impegnata a fondo per spingere una Turchia economicamente forte “al di qua” del Mediterraneo, soprattutto a causa della resistenza di Francia e Germania.

Una Turchia che ha preso le distanze dagli Stati Uniti d’America cui rimprovera di aver accettato passivamente la controrivoluzione in Egitto e la messa al bando dei Fratelli Musulmani e, soprattutto, di non aver bombardato la Siria quando el Assad usò l’arsenale chimico contro la sua stessa gente.

Erdogan non ha nemmeno risparmiato critiche all’Amministrazione americana nella convinzione che neutralizzare il Califfato non sia sufficiente per risolvere il problema del terrorismo islamico, ma occorra un’azione ad ampio raggio che colpisca chi fomenta la Jihad.

La Turchia è intenzionata a riprendere il suo antico ruolo di guida nella regione, in aperta competizione con un altro paese non arabo, l’Iran degli Ahjatollah. Una Turchia che sempre meno può essere considerata una sorta di “guardiano” a oriente della Nato.

Questa evoluzione/involuzione strategica è dovuta, in larga misura, al ruolo e alla controversa figura del Presidente Erdogan.

Un Presidente astuto che un noto giornalista turco, Cengiz Candar, ha definito “…populista come Chavez, autoritario come Putin e scaltro in affari come Berlusconi”.

Un Presidente forte in patria, nonostante i recenti scandali, abile in politica estera a sfruttare l’ambiguità e le divisioni degli occidentali.

Erdogan ha dato nuovo impulso alla costruzione di un muro di novecento chilometri lungo il confine con la Siria, inizialmente progettato per fermare i clandestini e ora riconvertito per cercare di isolare i guerriglieri del Califfo Abu Bakr el-Baghdadi e limitare le infiltrazioni terroristiche.

Questa linea di confine fortificata sta creando anche dei contraccolpi economici, soprattutto per le regioni del sud-est della Turchia.

Il Muro al confine con la Siria

Il Muro al confine con la Siria

Un muro per blindare il confine con la Siria e garantire la sicurezza, sulla falsa riga dei numerosi altri muri – recenti e meno recenti, lunghi e meno lunghi – apparsi in Medio Oriente (basti pensare a Israele), in Europa, in Africa e in Asia.

L’elenco dei muri eretti per dividere, anche da un punto di vista ideologico, il buono dal cattivo, il bene dal male, è lungo: da quello simbolo di Berlino, a quello in Cisgiordania e Gaza, tra la Corea del Nord e la Corea del Sud, tra Stati Uniti e Messico, nel Sahara, tra il Botswana e lo Zimbawe ecc…

La costruzione di un muro può bastare per proteggersi dall’avanzata di un nemico? Certamente no!

Perché allora la Turchia è così esitante nell’agire contro il Califfato, è così restia a intervenire a fianco dell’occidente?

Il via libera concesso dopo molto tempo ai curdi iracheni (non ai curdi turchi del PKK) di attraversare il confine per andare a combattere a Kobane contro l’Isis, è da considerarsi un avvicinamento alle posizioni americane o un semplice restailing d’immagine?

L’inerzia turca è un segno di debolezza o il frutto di una calcolata strategia politica?

Propendo per la seconda ipotesi perché la Turchia non è certo una nazione sprovveduta né in politica estera, né tanto meno dal punto di vista militare.

La Turchia pare essere un osservatore distaccato dei tristi accadimenti che si dipanano a poca distanza dai suoi confini, e non interviene in maniera decisa probabilmente perché ritiene l’ISIS un nemico ma, al momento, non così pericoloso e comunque controllabile.

Agli occhi dell’establishment turco, la guerra che da anni sta devastando l’Iraq e la Siria è considerata di minor gravità rispetto al problema “curdo”, percepito come la reale minaccia alla stabilità della Turchia.

La questione è sempre la stessa: per i turchi è necessario salvaguardare – oggi ancor più che nel passato – la propria identità kemalista. E per mantenere l’identità plasmata dal padre fondatore Kemal Pasha Ataturk, la Turchia vuole continuare a essere uno Stato “per” i turchi e composto essenzialmente “da” turchi autoctoni.

Si “spiegano” così le “dure” azioni intraprese prima contro gli armeni, poi contro i greci e, infine, contro i curdi.images

In una scala gerarchica delle priorità, al primo posto per i turchi non c’è la lotta contro il Califfato, contro la formazione di uno Stato islamico, bensì cercare di frenare le spinte autonomiste dei curdi e, nel contempo, eliminare il regime siriano di el Assad.

Curdi smembrati e sparsi tra Turchia, Iraq, Iran e Siria; venti milioni di curdi in Turchia, cinque milioni in Iraq, sei milioni in Iran, un milione in Siria e altre centinaia di migliaia di emigrati sparsi nel mondo. Un popolo che però, a livello politico e nella percezione dell’opinione pubblica mondiale, conta poco, certamente meno rispetto al popolo palestinese che numericamente è meno di un sesto di quello curdo. Curdi in una terra che, a differenza di quella palestinese composta solo di sabbia, è ricchissima di petrolio.

Businnes petrolifero che arricchisce l’Iraq ma anche l’Iran. Business petrolifero pericoloso e malvisto dai turchi perché intrecciato ad un crescente nazionalismo curdo.

Petrolio e nazionalismo: una miscela esplosiva che potrebbe ingenerare un terremoto a livello geostrategico in una zona in cui le tensioni tra sunniti e sciiti superano i confini degli stati, in cui el Assad continua in qualche modo a sopravvivere e l’influenza iraniana si fa sempre più forte.

L’autonomia ottenuta nell’Iraq post Saddam Hussein dai curdi è solo il primo tassello di un progetto che porta all’ottenimento dell’indipendenza; proprio ciò che i turchi non vogliono perché temono l’effetto domino.

I buoni rapporti che la Turchia ha con il PDK, il Partito democratico del Kurdistan iracheno, non devono essere fuorvianti nel valutare le reali intenzioni di Erdogan che mira a mantenere al suo interno un PKK debole, facile da controllare e gestire.

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La mappa delle aree curde in Medio Oriente

La mappa delle aree curde in Medio Oriente

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