TERRORISMO: NUOVI METODI D’AZIONE ALL’OMBRA DELL’INFORMATION WARFARE.Riflessioni sui nuovi contesti operativi, che oltre alle consolidate metodologie tipiche del conflitto, oggi attraversano spazi ben più ampi e redditizi: la mente dell’opinione pubblica.

TERRORISMO: NUOVI METODI D’AZIONE ALL’OMBRA DELL’INFORMATION WARFARE.Riflessioni sui nuovi contesti operativi, che oltre alle consolidate metodologie tipiche del conflitto, oggi attraversano spazi ben più ampi e redditizi: la mente dell’opinione pubblica.

 

OA ospita con piacere un’interessante analisi della giornalista specializzata nel settore, Giovanna Ranaldo*, su un aspetto poco noto del terrorismo: “Riflessioni sui nuovi contesti operativi, che oltre alle consolidate metodologie tipiche del conflitto, oggi attraversano spazi ben più ampi e redditizi: la mente dell’opinione pubblica”.

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

La mente è un paracadute...diceva Einstein

La mente è come un paracadute…diceva Einstein

Guardando a quanto sta accadendo nel mondo, intorno a noi, si originano spontanee alcune riflessioni. ISIS, Ebola, bagarre politiche, nuove strategie d’intervento all’estero, geopolitica, e ancora… criticità sul piano culturale, sociale e anche ambientale (da ultimo, l’inondazione a Genova e Parma). Nulla è come avrebbero sperato i nostri nonni per noialtri figli di epoche migliori della loro: guerra, sacrifici, lavoro, fiducia, speranza, tutti ingredienti che non avevano risparmiato e che tuttavia, non hanno prodotto quella serenità tanto auspicata per la progenie. Oggi, tra le maggiori preoccupazioni per i cittadini, c’è proprio quel senso d’insicurezza rispetto al futuro, che si traduce spesso in preoccupazione e addirittura ansia. Stati d’animo, percezioni, emozioni[1]. Questo appare il nuovo terreno d’azione su cui s’innestano svariati semi. Emozioni come ponte, come varco, come arma e come strumento. Una risposta adattiva del proprio essere, a situazioni di stress, che tuttavia oggi diventa un pericoloso campo d’azione dove far attecchire interventi radicali con obiettivi ben chiari, frutto di azioni di guerriglia, vedi “terrorismo”.

Evitando di scendere troppo in dettagli di tipo specialistico che non ci competono, (molte le scuole di pensiero sulle suddivisioni delle emozioni tra primarie e secondarie), l’intento è quello piuttosto, di spostare il focus sulla percezione (nell’accezione più generica), puntando lo sguardo da angolazioni ben diverse, su quello che alla fine andrà a definirsi come una tipologia di “contesto” più specifico: l’Information Warfare o le relative correlazioni tra i due e l’opinione pubblica, senza tuttavia scendere in ambiti tecnici, ma mantenendo vive solo alcune potenziali riflessioni.

Il primo passo è di prendere la giusta distanza dall’oggetto dell’analisi, i dettagli fittissimi spariscono e si fa strada una visione d’insieme più omogenea e armoniosa.

Saigon

Saigon

Lo scenario di riferimento

Partiamo dal presupposto che intorno a noi, abbiamo un’infinita serie di input provenienti da svariate fonti, la cui trasmissione avviene per “informazioni”. Esempio? Basta “aprire” un cellulare… sì aprire, perché grazie alla tecnologia oggi esso rappresenta una sorta di “porta”, di finestra virtuale sul globo e le sue vicende. Con esso ci colleghiamo con il mondo!

The World is flat[2] (il mondo è piatto), così s’intitolava nel 2005 un libro di Thomas Lauren Friedman, in cui l’autore descrive l’evoluzione della globalizzazione nell’ultimo decennio. Il libro mette in luce il ruolo che Internet e le innovazioni tecnologiche a esso legate stanno avendo nel rompere le barriere culturali, temporali e logistiche tra paesi diversi. Vengono azzerate le distanze e le tempistiche grazie ai new media.

Così riusciamo a essere in contatto con tutti e ad avere informazioni e input costanti. Informazioni (nell’accezione più generica) più o meno attendibili e calibrate, che arrivano come una tempesta per ognuno e lo trascinano in una sorta di continua sollecitazione rispetto all’esterno… e alla realtà. Si può affermare che oggi, attraverso la tecnologia, l’apertura al mondo non passa soltanto attraverso una personale vision. Siamo nel mondo: controllo le news su internet, leggo la mail del collega che sta lavorando negli Stati Uniti, saluto la famiglia dei miei amici più cari a Bruxelles via Skype[3], o semplicemente ricerco per cena la ricetta della “Samosa” eritrea (antipasto tipico), e vado sul sito inglese perché ho visto un vaso che rende benissimo con l’arredamento antico dello studio.

Perfino inviti e cartoline adesso giungono via mail o WhatsApp[4], per abbattere i costi e ottimizzare i tempi. Inserisco su Google la meta delle prossime vacanze all’estero, perché devo capire com’è il clima e cosa mettere in valigia, quali sono le usanze e qual è la festa nazionale. Proprio per questa nuova dimensione che si è aperta al singolo individuo attraverso le nuove tecnologie, acquisiscono valenza discipline come la “comunicazione interculturale”. Strumenti importanti che soprattutto in mano agli specialisti, possono ribaltare l’esito di tante attività e consentire anche il raggiungimento di grandi obiettivi, sia nel campo militare, che in quello socio-culturale e politico. D’altra parte, pesante è il fardello delle informazioni che ci “assalgono” ogni mattina e caratterizzano il proprio vivere. Qualcuno lamenta la sovrabbondanza di messaggi che provengono da più parti e che spesso sono contraddittori e lasciano il povero ascoltatore stremato e incerto nell’apprendere di avvenimenti e circostanze.

E’ quasi come se fossimo immersi in un Oceano pieno di pesci inaspettati, che ci nuotano intorno. Siamo impregnati da un volume di sollecitazioni senza limiti o confini chiari e visibili che martellano la percezione di ogni individuo provocandone tutta una serie di reazioni.

Il giornalismo

In questo mare, fatto in particolare d’informazioni, l’esigenza maggiore dei più fiorenti produttori di notizie (i mass media), è quella di collocare il proprio prodotto, cioè di non perdere margini per mantenere salda una buona quota di mercato. Partiamo dal presupposto che i quotidiani, le riviste, il telegiornale, il web magazine (cioè tutto ciò che riguarda i mass media), sono dei “beni”, con un’organizzazione economica dietro, un indotto dalle vastissime proporzioni, che comprende stipendi per i giornalisti e gli operatori dell’informazione più in generale, i tecnici informatici, spese per le risorse impiegate, materiali etc… In quanto tali, i risultati dell’industria dell’informazione, vanno considerati dei “beni” che devono produrre, e per produrre devono essere venduti, guardati o “cliccati”. Ma come si fa ad assicurarsi la fedeltà di un lettore e la fidelizzazione di nuovi se non si ha un contatto diretto?

A questo ci pensa una forte azione di marketing (e non solo), che mira a rendere l’oggetto accattivante e d’interesse. Una degli strumenti più adatti è l’uso delle immagini.

Quando si è dal parrucchiere, o in aeroporto, in metro… si sfoglia il giornale e la prima cosa che si guardano sono le figure, poi i titoli. Per confezionarli si fa leva sulla “percezione dei potenziali lettori e sulle loro “emozioni”. Bisogna “pungere” per quel che sarà possibile il potenziale lettore. L’uso di questo termine non è un caso.

Una volta, quando ancora il mondo virtuale non si affacciava neanche alla realtà quotidiana, l’interazione tra quella carta che odorava di riciclo e inchiostro e il lettore, passava proprio dalle fotografie.

Un’interazione intima, profonda che scava nelle percezioni dell’individuo e ne cattura l’attenzione. Roland Barthes[5] nel suo libro “La camera chiara” parla di un elemento estraneo alla realtà apparente. Il testo è un saggio che contiene digressioni e riflessioni sull’arte della fotografia, l’autore parla della fotografia e identifica in essa (a parte l’operator ovvero l’operatore, colui che fa la foto, lo spectator ossia il fruitore, lo spettatore), il punctum: l’aspetto emotivo, ove lo spettatore viene irrazionalmente “colpito” da un dettaglio particolare della foto. Un elemento, un dettaglio (che c’è in certe fotografie, a prima vista inapparente ma decisivo), tale da custodire il cuore di tutta l’immagine, di suscitare il senso di verità che certe fotografie sanno produrre.

Sul piano dell’immediatezza percettiva, cui la fotografia rimanda,l’emozione, gioca anche dal punto di vista commerciale, escludendo la poetica dell’immagine, poiché il giornale è un bene e tale bene deve dar ragione a un mercato dell’editoria che ben poco ha di filosofico.

A ciò si aggiungono anche i titoli, i racconti dalle zone di crisi, le testimonianze, le immagini. In particolare i video. Le immagini delle alluvioni degli ultimi mesi, della disperazione della gente, delle case devastate, degli immigrati clandestini che continuano ad arrivare a sciami, del personale delle Forze armate e dell’Ordine sempre più a rischio, oggi anche di contagi, Ebola… conflitti, decapitazioni. Tutto colpisce l’immaginario collettivo, provocando emozioni come: rabbia, paura, disgusto, e poi ansia, delusione, speranza. C’è tutto in questo contesto dove l’informazione, “contaminata” si potrebbe dire, si colloca all’interno di quello che arrivati a questo punto si potrebbe ridefinire: da semplice e generico “contesto” al più specifico “Information Warfare[6]” IW.

In passato questa locuzione indicava una metodologia tipicamente miliare, che tuttavia si è evoluta in maniera sorprendente. E’ proprio questo ulteriore sviluppo e il supporto offerto da una fiorente tecnologia alla portata di tutti, che porta a una riflessione proprio rispetto a un IW ben più ampio. In una delle svariate definizioni, l’IW è un:Concetto basato sull’idea che quello informativo sia un vero e proprio nuovo dominio in cui, tra stati ovvero tra stati e attori non statuali, si gioca un confronto che vede le informazioni costituire, strumento di offesa e obiettivo”. In questo contesto, il termine indica le azioni intraprese al fine di acquisire superiorità nel dominio informativo minando i sistemi, i processi e il patrimonio informativo dell’avversario e difendendo al contempo i propri sistemi e le proprie reti nonché, più in generale, l’impiego delle informazioni ai fini del perseguimento degli interessi nazionali.

Nonostante la connotazione tipicamente militare, la guerra basata sulle informazioni ha manifestazioni di spicco anche nella politica, nell’economia, nella vita sociale ed è applicabile all’intera sicurezza nazionale dal tempo di pace al tempo di guerra.

Il concetto è divenuto ormai dinamico, nel senso che allarga i suoi confini e accorpa l’intero campo sociale e mediatico. Ma quali sono oggi i suoi limiti? In buona sostanza, non è un caso che le informazioni si susseguano, si scontrino per incongruenza e si rincorrano con contenuti dal significato contrario, perché spesso “calibrare il messaggio” non si limita al solo scopo di puro marketing! Le informazioni destinate al pubblico hanno un loro peso specifico, che ingenera reazioni nell’opinione pubblica e ne condiziona i comportamenti.

Museo della Guerra, Saigon

Museo della Guerra, Saigon

Terrorismo e comunicazione

Finora abbiamo parlato d’informazione in generale, del suo utilizzo più o meno calibrato, di quello che è il contesto, ma in esso esistono altri termini come disinformazione, influenza e controinformazione… ma anche propaganda, disseminazione. A cosa fanno riferimento questi termini? In particolare alla “percezione”[7] degli individui (inteso su scala mondiale) lavorando sulle emozioni, in definitiva, sulla mente.

A un primo sguardo, possono sembrare riflessioni lontane anni luce da una società ben consolidata nelle proprie risorse, educazione, procedure, consapevolezze, invece, è proprio questo il nuovo target. Basti pensare a pochi esempi. Tornando indietro a quell’11 settembre 2001, quando tutto sembrava avere un proprio equilibrio sicuro, che cosa è stato colpito in realtà dai terroristi? Non si è trattato soltanto delle povere vittime degli attentati, ma di qualcosa di ben più grande. L’intera operazione aveva un obiettivo diverso: la mente della gente! Come? Attraverso quella che oggi gli studiosi chiamano anche “psicologia del terrore”.

Non si tratta più di impiegare metodologie di conflitto che prevedono l’uso della “bomba atomica”, oggi il passaggio è ben più incisivo, efficace e di basso costo. Colpendo la mente della gente, si provocano reazioni tali che possono influenzare i comportamenti e consolidare identità con il minimo sforzo. Guardando a quello che sta “creando” l’ISIS[8], il concetto appare più chiaro. Fino a quando i mass media non hanno diffuso notizie su questo movimento, nessuno in occidente capiva di cosa si stesse parlando, se non gli esperti di settore. Ma come hanno fatto a catturare l’attenzione? Semplicemente con un atto degradante: una decapitazione mostrata in video, un prodotto utile a essere rimbalzato nella rete senza alcun costo (se non quello delle vite umane spese in quei tragici atti).

E’ bastata la decapitazione del giornalista James Foley, rimbalzata da tutti i media mondiali a gettare scompiglio tra la popolazione, e così l’ISIS fa paura e riceve un riconoscimento identitario senza precedenti.

Allo stesso modo, se i media non parlano di Ebola fa meno paura e l’avanzata terroristica si può ignorare! La maggior parte delle percezioni dell’opinione pubblica passano attraverso la tempesta informativa nella quale siamo costantemente al centro. Da anni si parla di “Conflitti asimmetrici”[9] un’espressione originariamente riferita alla guerra tra due o più soggetti (di diritto internazionale pubblico) o gruppi le cui rispettive forze militari differivano in modo significativo. Oggi la locuzione si è ampliata, accorpando in essa dinamiche in cui i combattenti “più deboli” cercano di usare una strategia in grado di compensare le proprie carenze quantitative e qualitative. L’uso dei mass media ne rappresenta un buon esempio. Esso passa attraverso l’impiego di uno dei più grandi poteri: la comunicazione (inteso come strumento, metodo, finanche arma)!

Diego Lazzarich (ricercatore e professore aggregato di Storia delle Dottrine Politiche alla Seconda Università degli studi di Napoli), già nel 2008 parlava di un paradigma: “guerra e comunicazione”. Una comunicazione che attribuisce significati, avvalora tesi, consente espressioni, diffonde conoscenza. E nel caso dell’ISIS si va anche ben oltre il solo discorso di una riconoscibilità del movimento, si parla addirittura di “reclutamento” (che secondo gli esperti USA, pare stia toccando livelli senza precedenti), attraverso i social media, con opportuni master message[10] calibrati per l’Occidente, (che corroborando la già consolidata “psicologia del terrore”, innervata nelle masse di tutto il mondo con gli attentati dell’11 settembre 2001), riesce a essere efficace su due fronti. Ed ecco come non basta il possesso d’ingenti capitali per sviluppare realtà come quella dell’ISIS, ma sia fondamentale per la sua crescita e mantenimento, il “riconoscimento” (positivo o negativo che esso sia non importa, basta “attribuire” un’identità), da parte dei mass media e di conseguenza del pubblico.

Come fare per avere attenzione sufficiente per consolidare il proprio potere mediatico? Con attività di stampo propagandistico degne del migliore comunicatore. Una prova di forza frutto di un attento studio: dimostrare all’Occidente la propria realtà, quale minaccia, attraverso un esempio che potesse colpire la “percezione” dei popoli dell’IW e alimentare un’immagine costruita ad hoc. Ed ecco che dall’altra parte, matura nell’opinione pubblica la voglia di riscatto e di vendetta per quegli omicidi così efferati, per la sfrontatezza dei terroristi e per la sicurezza del proprio benessere nel chiuso di casa, motivando, giustificando e supportando azioni “armi in pugno” che possano spazzare via la minaccia e lavare l’onta. Questo è quello che si sta sviluppando banalizzando le dinamiche. Questa è la “guerra” di oggi, quella che linguisticamente i comunicatori hanno trasformato in “conflitto” (per sganciare l’immaginario collettivo da vecchi retaggi) e che oggi si snoda tra i meandri dell’IW, attraverso il contributo Intelligence, e metodologie che “attaccano” il lato umano e le sue percezioni, in una parola: la mente.

Ecco svelato in quale modo, il tempo della guerra si riempie di vivide sacche di una comunicazione ricca di emozioni, paure, speranze, sogni e memoria. I reportage di guerra, i racconti di “chi ci è stato”, il giornalista in cima all’albergo in diretta, mentre dietro di lui le bombe affliggono la popolazione, il veterano che ha perso una gamba o un compagno… questo è il modo in cui la comunicazione si sovrappone alla guerra per mezzo di una “narrazione” che dona forma, significato, motivazione, veicolando messaggi (meditati, artefatti o autentici che siano).

Scrive Diego Lazzarich nel suo “Guerra e/è comunicazione”: “Il passaggio da una guerra parziale a una totale fa sì che tutti, all’interno dello Stato, si ritrovino coinvolti nel processo bellico”[11] (Ed. Guida, 2008).

Concludendo, le emozioni, le percezioni, “il lato umano” dell’opinione pubblica, oggi rappresenta il terreno fertile nel quale far attecchire i giusti semi. Essi costituiscono gli elementi chiave nell’ambito della comunicazione di massa degli ultimi anni, perché non vi sono mobilitazioni di sorta senza il supporto generale e per ottenere questo è fondamentale rendere “consapevoli” i cittadini, perché si abbia un denominatore comune, una motivazione forte che produca consenso renda sopportabili i sacrifici, e lecita l’azione.

[1]Le emozioni sono stati mentali e fisiologici associati a modificazioni psicofisiologiche, a stimoli interni o esterni, naturali o appresi. In termini evolutivi, o darwiniani, la loro principale funzione consiste nel rendere più efficace la reazione dell’individuo a situazioni in cui si rende necessaria una risposta immediata ai fini della sopravvivenza, reazione che non utilizzi cioè processi cognitivi ed elaborazione cosciente.

[2]Thomas Lauren Friedman è un saggista e famoso editorialista statunitense. Friedman scrive di politica estera per il New York Times (di cui è anche stato per anni corrispondente dal Medio Oriente) ed è uno dei più noti opinion leader americani. Il libro mette in luce il ruolo che Internet e le innovazioni tecnologiche a esso legate stanno avendo nel rompere le barriere culturali, temporali e logistiche tra paesi diversi. Ha vinto tre premi Pulitzer, nel 1983 e nel 1988, rispettivamente per i reportage dall’invasione israeliana del Libano e per la prima intifada palestinese e poi nel 2002 come commentatore. In Italia a Friedmann è stato conferito l’Urbino Press Award 2009.

[3] Skype è un software proprietario freeware di messaggistica istantanea molto diffuso a livello globale.

[4] WhattApp è un’applicazione proprietaria di messaggistica istantanea multi-piattaforma per smartphone.

[5] La camera chiara. Nota sulla fotografia (La chambre claire, Paris 1980) è un saggio scritto dal critico francese (semiologo, critico letterario, linguista) Roland Barthes nel 1980. L’opera in questione contiene digressioni e riflessioni sull’arte della fotografia.

[6] L’information warfare (IW) o guerra dell’informazione è una metodologia di approccio al conflitto armato, imperniato sulla gestione e l’uso dell’informazione in ogni sua forma e a qualunque livello con lo scopo di assicurarsi il decisivo vantaggio militare specialmente in un contesto militare combinato e integrato. La guerra basata sull’informazione è sia difensiva, che offensiva, spaziando dalle iniziative atte a impedire all’avversario di acquisire o sfruttare informazioni, fino alle misure mirate a garantire l’integrità, l’affidabilità e l’interoperabilità del proprio assetto informativo. Nonostante la connotazione tipicamente militare, la guerra basata sulle informazioni ha manifestazioni di spicco anche nella politica, nell’economia, nella vita sociale ed è applicabile all’intera sicurezza nazionale dal tempo di pace al tempo di guerra. In realtà in concetto di information warfare è stato ripreso e formulato da numerosi studiosi ed enti di ricerca accademici e militari.Il professor Martin C. Libicki, dell’Institute for National Strategic Studies, specifica che esistono distinte forme di guerra dell’informazione, ognuna con proprie caratteristiche. Si hanno quindi sette diverse forme di scontro con l’avversario, sia esso politico, militare o economico.

[7] Percezione: 1 Atto del percepire, dell’intendere con la mente o con i sensi una realtà esterna: avere la p. del pericolo; 2 Attività conoscitiva.

[8] ISIS: Stato Islamico dell’Iraq e della Grande Siria. Gruppo jihadista attivo in Siria e Iraq il cui attuale leader, Abu Bakr al-Baghdadi, ha unilateralmenteproclamato la rinascita del califfato nei territori caduti sotto il suo controllo.

[9]La guerra asimmetrica originariamente era un’espressione riferita alla guerra tra due o più soggetti (di diritto internazionale pubblico) o gruppi le cui rispettive forze militari differivano in modo significativo. I cultori di scienze militari contemporanei hanno tuttavia la tendenza ad ampliare tale definizione, fino a ricomprendervi l’asimmetria di strategia o tattica; oggi la guerra asimmetrica può indicare un conflitto in cui le risorse dei belligeranti sono diverse nell’essenza e nel combattimento, interagiscono e tentano di sfruttare le debolezze caratteristiche del rispettivo avversario. Tali lotte spesso implicano strategie e tattiche di guerra non convenzionale, in cui i combattenti “più deboli” cercano di usare una strategia in grado di compensare le proprie carenze quantitative e qualitative.

[10] Master message, inteso come “messaggio chiave” nel “piano di comunicazione” aziendale. L’obiettivo del messaggio è creare un cambiamento nell’opinione e nel comportamento dei riceventi, o in ogni caso di orientare riflessioni e comportamenti.

[11] “Guerra e/è comunicazione” di Diego Lazzarich, Ed. Guida, 2008.

*Giovanna Ranaldo. Giornalista specializzata nel settore Difesa ed esperto in comunicazioni operative e relazioni tra media e Forze Armate. Consulente e docente di giornalismo e comunicazione. Direttore del web-magazine specializzato De Armas. www.dearmas.it

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