L’Egitto ha avuto nel passato un ruolo di grande mediatore e di stabilizzatore dell’area, dove è stato tradizionalmente leader. Sta cercando di ripristinare questa sua prerogativa in una situazione di grande difficoltà non solo interna ma aggravata all’esterno dai jihadisti estremisti che lottano sia sul piano ideologico sia sul terreno con armi potenti.
Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini
L’Egitto di Abdel Fattah el Sisi può aspirare a ritornare al suo storico ruolo di mediatore in Medio Oriente e rinverdire così la sua importanza strategica dei tempi di Sadat e di Mubarak?
L’Egitto d’oggi potrà avere un ruolo attivo nelle crisi cicliche (dal lontano 1948 si susseguono momenti d’estrema tensione a periodi di calma apparente), tra Israele e la Palestina?
L’Egitto d’oggi potrà ritornare a essere un moderatore in tutta l’area mediorientale o necessariamente ogni iniziativa dovrà essere lasciata – inevitabilmente – agli Stati Uniti e alla Russia, gli unici attori internazionali in grado di poter imporre un simulacro di pace non solo tra Israele e la Palestina, ma anche in Iraq, in Siria e in Libia?
Difficile poterlo prevedere anche se – e ciò è indubbio – l’interesse strategico degli americani per il Medio Oriente è fortemente diminuito di pari passo con il venir meno dell’interesse per il petrolio. Così come l’iniziativa della Russia sembra essere apparentemente molto defilata.
L’interesse dell’Egitto di riposizionarsi al centro dello scacchiere mediorientale è alto, come altrettanto forte è la voglia di rimarcare una propria credibilità prendendo le distanze in toto dall’era Morsi e parzialmente da quella di Mubarak.
El Sisi sembra desideroso di emulare la politica estera ondivaga e ambigua di Mubarak, che comunque aveva dato buoni frutti. Il nuovo Presidente egiziano però non ha un grande feeling (per usare un eufemismo) con il movimento palestinese Hamas.
Un movimento che non è altro che una sorta di diramazione dei Fratelli Musulmani, messi al bando in Egitto dopo lo scoppio della controrivoluzione e la destituzione di Morsi nel luglio del 2013.
In un articolo apparso su Business Insider, Eric Trager ha scritto che Morsi, prima ancora di essere eletto Presidente, era il punto di contatto tra Hamas e l’ufficio della Guida Suprema dei Fratelli Musulmani.
La vicinanza tra i Fratelli Musulmani e Hamas aveva portato alla stipulazione della tregua tra Hamas e Israele del novembre 2012, unico vero successo in politica estera del Presidente egiziano Morsi.
Sul Washington Post il giornalista Adam Taylor ha recentemente affermato che Morsi era riuscito a svolgere un sorprendente lavoro di mediazione e, seppur sostenendo apertamente la popolazione palestinese e indirettamente Hamas, non si era alienato le simpatie degli israeliani.
El Sisi non è Morsi e, pertanto, il suo tentativo di mediazione per un cessate il fuoco tra Israele e Palestina ha avuto un esito scontato; rifiuto secco da parte di Hamas e accettazione di Israele.
Alla luce della dura lotta intrapresa contro gli Ihuan Muslimin, i Fratelli Musulmani, sul perché Hamas non possa giudicare credibile la mediazione di un Egitto personificato da el Sisi restano ben pochi dubbi.
La sfiducia di Hamas è anche “avvalorata” dalle ripetute azioni militari dell’esercito egiziano in Sinai e la chiusura del commercio nei tunnel clandestini che dalla penisola egiziana arrivano a Gaza.
Più articolata l’accettazione della mediazione da parte degli israeliani, forse perché considerano il nuovo Presidente egiziano una sorta di riedizione del rais Mubarak, intravedendo la possibilità di mantenere con l’Egitto una pace e, nel contempo, allentare le tensioni alle frontiere.
E forse anche perché gli israeliani ritengono el Sisi un potenziale alleato del Presidente palestinese Mahmoud Abbas nella lotta contro Hamas, a vantaggio non solo della posizione israeliana ma anche nell’ottica di un rafforzamento politico dell’Autorità nazionale palestinese.
El Sisi quindi quale “nuovo” Mubarak nelle relazioni con un vicinato in fiamme? Il parallelismo tra i due leader regge a fatica perché le premesse sono molto diverse.
El Sisi ha decapitato i Fratelli Musulmani, al contrario di Mubarak che in qualche modo, seppur entro confini ben delimitati, li aveva legittimati dopo gli anni di ghettizzazione dell’epoca nasseriana e di Sadat.
Il Rais Mubarak era riuscito a trovare un compromesso con la Fratellanza Musulmana, permettendole di entrare nell’agone politico in cambio dell’abbandono della lotta armata e di posizioni estremiste.
Posizioni estremiste che, inevitabilmente, sono oggi tornate in auge e che, di fatto, bloccano ogni possibilità di dialogo tra i Fratelli Musulmani e le altre forze politiche all’interno dell’Egitto, ma anche tra le varie diramazioni fuori dall’Egitto.
Basta vedere ciò che succede all’interno del movimento di Hamas che, apparentemente, dovrebbe avere tutto l’interesse affinché una mediazione porti a una tregua duratura che impedisca l’occupazione di Gaza.
Evidentemente le correnti estremiste al suo interno stanno acquisendo sempre più potere in una visione strategica che contempla la lotta dura, con l’obiettivo di infiammare non solo la Palestina ma tutto il Medio Oriente passando attraverso la Siria e l’Iraq.
Se l’Egitto non può assurgere al ruolo di mediatore, chi può farlo? Forse il Qatar? O la Turchia?
Il Qatar è sempre stato un convinto sostenitore dei Fratelli Musulmani in Egitto, attraverso l’elargizione di milioni di dollari in aiuti economici. Ha finanziato i ribelli libici nella lotta contro il Rais Gheddafi e continua a sostenere parte degli oppositori del regime di el Assad in Siria.
Hamas considera l’emiro del Qatar un alleato fidato anche perché – come del resto la gran parte degli altri paesi arabi – è apparentemente in “guerra” con Israele, nonostante i numerosi legami economici e gli intensi scambi commerciali non siano stati interrotti, anzi! Tale background può consentire all’emiro del Qatar di assurgere al ruolo di mediatore nello scacchiere mediorientale? Sembra proprio di no.
La Turchia, paese sì musulmano ma non arabo, è più credibile dell’Egitto o del Qatar? Anche in questo caso sembra di no, alla luce anche dei non idilliaci rapporti tra Erdogan e Netanyahu.
In questi ultimi anni il vento della primavera araba e le mobilitazioni popolari non sono riusciti a realizzare – pur spazzando via alcuni dittatori – delle democrazie stabili, ad eccezione della positiva genesi tunisina. Pertanto, in questo frangente, stiamo assistendo a una radicalizzazione violenta delle varie forze politiche all’interno dei singoli paesi.
Le prospettive a medio termine di una riappacificazione nell’area non sembrano essere incoraggianti, come altrettanto difficile appare la possibilità di una mediazione da parte dell’Egitto, nonostante l’impegno in prima persona di el Sisi e del suo Ministro degli Esteri Sameh Shoukry.
La difficoltà della mediazione, in definitiva, è un altro negativo lascito dell’illusione della primavera araba quale strumento per un passaggio indolore dai regimi dittatoriali alle democrazie.
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