LE LESSONS LEARNING DELL’ESPERIENZA TUNISINA

LE LESSONS LEARNING DELL’ESPERIENZA TUNISINA

Sembra che la Tunisia stia raggiungendo un nuovo equilibrio, una necessaria stabilità con una Costituzione che rappresenta un compromesso tra le istanze islamiche e quelle laiche. Vedremo se reggerà alla prova dei fatti. E’un auspicio importante per tutta la sponda sud del Mediterraneo. Crediamoci.

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

Sono passati ormai alcuni anni da quando, proprio dalla Tunisia, si è accesa la miccia della rivoluzione araba che, con un effetto domino, sì è propagata in altri paesi del Medio Oriente.

Ad oggi, mentre l’Egitto è alle prese con le elezioni presidenziali e il rinnovo del Parlamento in un contesto socio-economico e di sicurezza precario, mentre in Siria e in Libia, seppur con gradazioni diverse, impera il caos, la Tunisia è l’unico paese che è riuscito ad andare “oltre” e varare una seconda Repubblica.

Alla fine dello scorso mese di gennaio l’Assemblea Costituente tunisina ha approvato, non senza travagli, una nuova Carta con duecento voti a favore, solo dodici i contrari e quattro gli astenuti.

Dopo mesi di aspre dispute tra il partito islamista Ennahda e l’opposizione sul ruolo della Sharia nella Costituzione e nella società, sul concetto della laicità dello Stato e sul sistema di governo da adottare, con la formula del compromesso s’è arrivati alla ratifica di una Costituzione che si può definire, se non rivoluzionaria, quanto meno innovativa per il mondo arabo.

Il partito Ennahda in quest’ultimo anno, pur avendo una maggioranza solida, forte del mandato elettorale ottenuto a seguito delle ultime elezioni, ha avuto la capacità – e la forza – di non arroccarsi in una posizione di muro contro muro.

Al contrario, seppur dopo mesi di tensioni, gli islamisti hanno concesso all’opposizione delle aperture su alcune materie considerate dai più non negoziabili.

La conseguenza immediata è stata la perdita del consenso popolare soprattutto tra le fila delle frange più oltranziste ma, fortunatamente per i tunisini, ha prevalso la volontà di proseguire con la politica del dialogo e del consenso.

Politica che, nel medio periodo, s’è rivelata vincente ed ha permesso alla Tunisia di essere oggi uno Stato che – per ora almeno sulla carta – garantisce più diritti alle donne rispetto agli anni addietro, uno Stato in cui è possibile manifestare liberamente e i diritti sindacali dei lavoratori sono meglio tutelati.

A tal riguardo, appaiono indicative le parole del leader di Ennahda Rachid Ghannouchi

Rachid Ghannouchi

Rachid Ghannouchi

a difesa delle concessioni politiche “…il partito non è sconfitto perché il primo beneficiario delle concessioni è la Tunisia,……se perdiamo il potere, ci ritorneremo, ma se perdiamo la sicurezza e la stabilità della Tunisia, sarà una perdita per tutti..”.

E giustappunto, gli islamisti di Ennahda in breve tempo non solo hanno recuperato buona parte del consenso perduto e il dissenso interno è rientrato negli alveoli della normale dialettica interna ai partiti, ma hanno preso le distanze dai Salafiti, ergendosi così a paladini di un islamismo tollerante e moderato, non militante.

Nonostante i progressi fatti in questi ultimi mesi, la Tunisia resta comunque un paese sotto osservazione, costantemente monitorato dalla Comunità internazionale.

Per i governanti tunisini il lavoro ancora da svolgere è moltissimo affinché il concetto di democrazia attecchisca nei vari strati della società; ma la strada intrapresa è quella giusta.

Una strada che non può essere seguita tout court da altri paesi arabi, in primis l’Egitto, a causa delle diverse peculiarità geopolitiche, delle differenti situazioni socio-economiche, dei retaggi storico-culturali.

Ogni Paese deve seguire la propria strada, con i propri tempi, cercando però, se possibile, di far tesoro di alcuni insegnamenti che possono essere colti dall’esperienza tunisina, peraltro “esportabili” e “adattabili” in altri contesti.

Un aspetto importante da rilevare è che la rivoluzione tunisina si è trasformata – per merito degli stessi cittadini – in una rivoluzione democratica, con un “pedaggio” in vite umane “contenuto” (termine bruttissimo ma efficace, se comparato ad alcune altre realtà mediorientali con tristi e impressionanti bollettini di guerra a cadenza quotidiana).

Una rivoluzione democratica che, con l’andar del tempo, s’è consolidata a tal punto da trasformarsi in un baluardo del nazionalismo tunisino contro il rischio di una deriva islamista.

Al netto dei differenti contesti socio-economici e politici, paesi in “crisi” come la Siria, la Libia, l’Egitto e altri ancora, che insegnamenti potrebbero trarre dall’esperienza tunisina?

Innanzitutto dovrebbero entrare con forza, nel vocabolario non solo dei vari leader politici, delle opposizioni, delle forze armate, ma anche della popolazione in generale, tre semplici parole: dialogo, consenso e rispetto.

Dialogo, consenso e rispetto che, anche se non nell’immediato, potrebbero riuscire a sostituire i concetti oggi imperanti tra cui la prevaricazione del più forte contro il più debole, la dominazione del gruppo dirigente, la marginalizzazione dei soggetti più deboli.

Il deposto Presidente tunisino Ben Ali

Il deposto Presidente tunisino Ben Ali

Dialogo, consenso e rispetto che potrebbero garantire e favorire, se ben applicati, l’auspicata transizione di paesi con un regime autoritario verso forme di governo che s’avvicinino, quanto più possibile, a un simulacro di democrazia.

Altro aspetto importante che emerge dall’esperienza tunisina, è il ruolo della cosiddetta “società civile”, totalmente assente in Libia e in Siria, o relegata ai margini, quasi inesistente e silenziata in Egitto.

Società civile, intesa come associazioni di varia natura e sindacati dei lavoratori che, come s’è visto in Tunisia, può svolgere all’occorrenza sia il ruolo fondamentale di uasit, di mediatore tra il governo e le forze d’opposizione, sia di sparring partner per sostenere e incoraggiare il dialogo tra le parti in lotta e arrivare il più velocemente possibile ad una soluzione.

Altra lessons learning riguarda il ruolo dell’esercito che, in questi paesi, ha sempre avuto, e continuerà a esercitare, un ruolo importante.

L’esercito tunisino, sin dagli albori della rivoluzione, ha mantenuto una “rigida” neutralità, non schierandosi né con il deposto Presidente Zine El-Abidine Ben Ali, né con l’opposizione.

Così facendo, l’esercito tunisino si è trasformato nel baluardo della “laicità” dello Stato (emergono delle affinità con il ruolo che ha avuto ed ha l’esercito in Turchia) e, in qualche modo, ha anche salvaguardato il percorso politico post rivoluzionario che ha portato ai risultati di questi ultimi mesi.

L’esatto contrario del ruolo attivo svolto dall’esercito egiziano prima, durante e dopo la caduta del Rais Hosni Mubarak, nella contro-rivoluzione del luglio 2013 che ha posto fine all’era Morsi e dei fratelli musulmani, nelle vicende di questi giorni con la scalata al potere del generale al Sisi.

Dialogo, consenso e rispetto potranno salvare le nazioni ora sull’orlo del baratro? Difficile predirlo, di sicuro senza questi ingredienti nessuna ricetta utile alla riappacificazione potrà essere realizzata.

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