Jihadisti in Europa.Chi sono e come vengono reclutati

Jihadisti in Europa.Chi sono e come vengono reclutati

Continuiamo, con contributi di diversi autori, lo studio sui reclutamenti di jihadisti in Europa, un fenomeno in espansione e decisamente pericoloso per i nostri giovani…anche non musulmani, ma magari deboli e non ancora fortemente strutturati dal punto di vista mentale.

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

La presenza di jihadisti con passaporto dell’Unione Europea è stata spesso sottovalutata e ridotta a un fenomeno d’integrazione non riuscita di nuovi immigrati. Eventi recenti, però, hanno messo in crisi questa visione.

L’inizio di presa di coscienza di una problematica legata alla seconda e terza generazione d’immigrati è avvenuto con gli attentati a Madrid nel 2004 e a Londra nel 2005 oltre a selettivi omicidi tra i quali quello del regista Theo Van Gogh, portati a termine da “homegrown” terroristi. Ancora più inquietanti, però, sono i video apparsi negli ultimi mesi su Youtube in cui appaiono giovani che decapitano prigionieri. Non una novità si potrebbe dire, sennonché gli assassini parlavano olandese e, in alcuni casi, il fiammingo. Questi eventi e la volontà di partecipare alla Jihad al punto di essere pronti a commettere crimini contro l’umanità è stata un’angosciosa e inquietante sorpresa e al desiderio di sapere di sapere chi sono gli jihadisti europei, perché sono partiti e come sono stati reclutati.20140210-FLAG-JABHAT-AL-NUSRA-660X440

Secondo Norman Benotman, direttore del Quillian Foundation, la decisione di partire per la Siria non è necessariamente legata ai movimenti jihadisti: alcuni partirebbero dopo essere stati emotivamente colpiti dalla visione quotidiana in televisione e in internet di stragi, di distruzioni e di vittime innocenti. A questo va aggiunto un certo disgusto per l’ambiguità con cui l’Unione Europea si rapporta nei confronti della guerra in Siria. Il mancato intervento in difesa della popolazione civile è visto come la prova che gli Europei, allo stesso modo degli americani difendono solo i propri interessi e sono più che disposti a sacrificare una popolazione mussulmana. In quest’ottica i movimenti jihadisti che si muovono in Siria assumono il ruolo di eroi e molti sono pronti a raccogliere fondi e/o a partire per unirsi a loro. Costoro, spesso, arrivano in Siria con l’intenzione di fare solo lavoro umanitario e si trovano però in un secondo momento con armi in pugno.

Ma chi è più sensibile al reclutamento? Esiste un profilo del futuro jihadista?

Le ricerche portate avanti dall’International Centre for the Study of Radicalisation hanno demolito l’immagine del terrorista come povero, proveniente da classi disagiate e senza grandi prospettive. Alcuni degli autori di azioni terroristiche legate alla Jihad avevano completato studi universitari e la maggior parte degli arrestati in Europa per azioni terroristiche aveva un lavoro fisso anche se di alto livello.

Mentre dunque non appare possibile definire una classe sociale di provenienza, Edwin Bakker, esperto di terrorismo del Clingedael (Netherlands Institute of International Relations), ha individuato tre categorie di persone più vulnerabili al reclutamento jihadista:

  1. Nuovi Immigrati
  2. Seconda o terza generazione d’immigrati
  3. Neoconvertiti

Il primo gruppo racchiude sia coloro sia, provenienti dal Nord Africa o dal Medio Oriente arrivano in Europa da studenti o da rifugiati. In alcuni casi erano già stati sfiorati dalla radicalizzazione jihadista, mentre altri si sono avvicinati al jihadismo dopo l’arrivo in Europa. Muhammad Atta, l’attentatore dell’11 settembre, faceva parte di questo secondo gruppo, ad esempio e il suo reclutamento ebbe luogo, sembra, ad Amburgo.

Il secondo gruppo raccoglie i figli o nipoti d’immigrati giunti in Europa alla ricerca di un lavoro o di sicurezza. La maggior parte di loro possiede un passaporto europeo e parla perfettamente la lingua del Paese di residenza. Muhammad Bouyeri, l’assassino del regista olandese Theo Van Gogh, era nato ad Amsterdam dai genitori marocchini e lì aveva compiuto i suoi studi.

Il terzo gruppo racchiude i neoconvertiti che si avvicinano a una visione radicale dell’Islam dopo essere diventati musulmani. Esempi di questo terzo gruppo oltre a Michael Adebolajo e Michael Adebowale, uccisori l’anno scorso del soldato Lee Rigby a Londra, vi è Giuliano Delnevo, genovese ucciso in Siria l’anno scorso.

Marc Sagerman, psicologo ed esperto di Al-Qaeda, afferma che ciò che unisce questi gruppi è un periodo di profonda crisi d’identità e stress che l’adozione di un Islam radicale consente di superare con l’inserimento all’interno di un gruppo coeso dalla fede e una nuova posizione nel mondo.

Come avviene il reclutamento?images

Il reclutamento classico di Al-Qaeda avveniva in tre fasi principali: il primo era l’affiliazione sociale, attraverso amici, o familiari che inducono un avvicinamento all’Islam più radicale. Il secondo punto era la radicalizzazione del credo dell’individuo portando giovani musulmani alienati dalla cultura Occidentale in cui vivevano a divenire potenziali mujaheddin. Le moschee erano il luogo prominente del reclutamento salafita. Un esempio perfetto sembrano essere le Moschee di Finsbury Park e di Baker Street a Londra. Questi luoghi, se come i loro predicatori hanno spesso protestato ai Media, non hanno mai reclutato attivamente, erano e sono però responsabili di una progressiva ed estrema radicalizzazione che ha avuto come naturale conseguenza l’accettazione che andare a combattere in Iraq prima e ora in Siria è un dovere per ogni Musulmano. Il terzo punto fondamentale era il contatto diretto con un membro attivo della Jihad globale. Senza qualcuno in grado di fare da tramite tra il simpatizzante con la leadership di Al-Qaeda, questi non sarebbe mai divenuto un vero Mujaheddin.

Gli attacchi dell’11 Settembre e il conseguente maggior controllo dei servizi d’ordine intorno alle moschee da un lato e la difficoltà dei gruppi militanti di agire in prima persona per reclutare nuovi affiliati hanno condotto a un cambio di strategia. Giovani e carismatici predicatori, spesso residenti in occidente, hanno iniziato a usare il web come cassa di risonanza per la raccolta di affiliati, fondi e per mantenere i contatti con una rete sempre più ampia e varia di gruppi in giro nel mondo. In particolar modo, mentre il contatto umano all’interno delle moschee è tuttora importante, la radicalizzazione avviene attraverso siti web e pagine dei social network (Facebook, You Tube e Twitter per nominarne solo alcuni).

Anche il reclutamento avviene all’interno dell’universo d’internet; alcuni dei gruppi principali che si occupano del reclutamento e della radicalizzazione si possono ricordare: Sharia4 (illegali ora, sia in Gran Bretagna sia nei Paesi Bassi), Straat Dawash riconducibili ai più importanti network jihadisti europei quali Al-Muhajiroun (Lowles –Mulahll) e Hofstad Network.

L’analisi dell’uso dei social network da parte di gruppi jihadisti ha portato alla scoperta di siti multilingue in grado di attrarre sia neocovertiti sia mussulmani nati e cresciuti in Europa che non hanno ancora una perfetta conoscenza della lingua araba né, e questo è essenziale una profonda conoscenza della Sharia e della legge Islamica, cosa che li rende vulnerabili a una predicazione selettiva ed estremista della religione Islamica. Un semplice esempio: al contrario di quanto predicato, la Jihad non è un dovere per tutti i Musulmani. Più grave ancora, le analisi hanno portato alla scoperta che, mentre la creazione delle singole pagine web è opera di singoli, il numero di “tweet” e “like” supera le migliaia: ciò significa che si crea una vasta base sociale di gradimento e di sostegno per gruppi terroristici che nelle intenzioni vorrebbero colpire anche l’Occidente.

Inoltre, l’uso dei siti come Facebook e Twitter permettono anche di abbassare l’età media dei giovani reclutati – in genere dai 13-14 anni fino ai ventenni. I siti sono preparati in maniera precisa attraverso quello che potrebbe essere definita una strategia di marketing: attraverso l’uso sapiente d’immagini e video si provocano le emozioni dell’utente al punto che il rifiuto della cultura occidentale vista come traditrice e infedele e la partenza verso un teatro di guerra per portare sollievo combattendo al fratello in difficoltà sembra l’unica soluzione possibile per un vero credente. L’analisi di diciassette pagine Facebook di Winter2014project, ha mostrato un uso enorme di video proprio per ottenere questo risultato secondo il principio che “un’immagine è degna di 1000 parole e un video di mille immagini” (v. Pathways to Violent Extremism in digital Era, di Edwards e Gribbon).

Oltre ad attrarre e influenzare giovanissimi, l’uso dei più comuni siti d’interazione permette la rinascita quasi immediata del sito nel caso in cui sia chiuso con nome simile (ad esempio la pagina Facebook Bilad al-Shaam include un sottotitolo Bilad al-Shaam26 nel senso che era già stato bloccato per venticinque volte); questa situazione evidenzia come la stessa abilità dei responsabili delle piattaforme di bloccarne un uso sovversivo sia pressoché impossibile.

Un altro canale di favore per la radicalizzazione e il reclutamento è la prigione. Diversi jihadisti che in seguito sono stati arrestati, hanno combatto all’estero o compiuto attentati in Patria, hanno trascorso periodi in carcere: tra questi i due assassini di Lee Rigby che dopo un periodo in carcere si sono convertiti e hanno abbracciato una versione radicale dell’Islam. Un’inchiesta portata avanti dal RAND (vedi Radicalization or Rehabilitation: Understanding the Challenge of Extremist and Radicalized Prisoners) ha dimostrato come le prigioni nel mondo in generale e in Occidente in particolare siano divenute un terreno perfetto per la predicazione e il reclutamento di Mujaheddin. Attraverso la delegittimazione dell’amministrazione carceraria (es. minacciare e intimidire le guardie; rifiuto di obbedire etc.), la creazione di preghiere parallele a quelle ufficiali il venerdì e la distribuzione di materiale salafita, le prigioni diventano il perfetto ricettacolo per la trasmissione e la creazione di jihadisti. I membri di gruppi islamisti offrono amicizia e protezione a giovani condannati spesso per reati minori, cominciando quel cammino che alla loro uscita dalle prigioni, li porterà a brandire le armi contro una società che li ha rifiutati e condannati. Questa situazione che ha assunto livelli preoccupanti in Gran Bretagna (vedi Dean Lewis “Muslim Extremists Feroz Khan and Fuad Awale Threatened to Behead Full Sutton Prison Guard” 7 April 2014, nella rivista ‘International Business Affairs’) preoccupa anche la Francia, dove è stato calcolato che il 70% della popolazione carceraria è di fede Musulmana (v. Brandon James, the Danger of Radicalization in the West e Moore Molly, In France Prisons filled of Muslim, Washington Post).

La de radicalizzazione delle prigioni non presenta facili soluzioni perché per propria stessa definizione sono luoghi, ove sono raggruppate persone spesso violente, disadattate e, dove un’ideologia che va contro lo Stato e che offre a chi l’accetta un nuovo inizio è ben recepita. L’Europa ora che il problema non è più ignorabile sta prendendo ad esempio tecniche utilizzate negli ultimi decenni in Paesi come Libia, Egitto Arabia Saudita e Filippine che si basa sulla segregazione dei condannati per terrorismo dagli altri carcerati per impedire reclutamenti e il tentativo di re-educare alla fede islamica.

L’applicazione di tecniche per la de-radicalizzazione sia all’interno delle prigioni che dei siti web è stata al centro di dibattiti in Europa sin dal 2011 quando fu creato il Radicalisation Awareness Network (RAN), con lo scopo di cercare tattiche applicabili per contrastare il nuovo dinamismo dei gruppi jihadisti in Europa. Fino ad oggi sono state messe in campo strategie che guidano al reinserimento nella società d’individui che sono stati sfiorati dall’estremismo; allo stesso tempo si cerca di individuare e isolare membri dei gruppi jihadisti attraverso uno scambio più aperto e frequente delle informazioni sui gruppi operanti in Europa.Schermata-2013-06-18-alle-13.39.25-e1371552441405

Mentre queste azioni potrebbero limitare le nuove partenze verso l’estero e, nel lungo periodo, ridurre l’adesione a gruppi jihadisti, rimane da affrontare la questione di chi è già partito e che potrebbe tornare: su questa questione gli Stati sono divisi. Infatti, mentre il Belgio che pure ha un numero gravoso di cittadini in Siria si dice contrario a passi definitivi come il ritiro del passaporto come già avviene in Germania, la Gran Bretagna è già andata ancora più in là ripudiando legalmente i propri cittadini sul principio che la cittadinanza è un privilegio, non un diritto (v. Katrin Bennhold, Tri-tai Increasingly Invokes Power to Disown Its Citizens, The New York Times).

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