TUNISIA. DEMOCRAZIA NEL VICINO ORIENTE

TUNISIA. DEMOCRAZIA NEL VICINO ORIENTE

La Tunisia sta sperimentando una relativa stabilità con aspetti interessanti di democrazia applicata. Potrebbe rappresentare il primo territorio a godere di una certa tranquillità anche nella costruzione di un percorso stabile verso criteri di consenso popolare in applicazione di parametri democratici. Se ne avvantaggerebbe tutto il Mediterraneo. La situazione attuale nella sintetica analisi di Aldo Madia.

Il Direttore Scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

Moncef Marzouk

Moncef Marzouk

Lo scorso 3 marzo 2014, a Tunisi, nel discorso al Consiglio dei Diritti Umani il Presidente tunisino Moncef Marzouk ha dichiarato che il suo Governo costituirà il primo esempio di democrazia nel mondo arabo.

Il Presidente ha informato il Consiglio sulla riforma dell’apparato di sicurezza e la lotta al terrorismo e ha chiesto di sostenere la Tunisia anche per il recupero dei beni di cui si è illegittimamente impossessato l’ex Presidente Ben Alì.

Moncef Marzouk può vantare il conseguimento di obiettivi importanti che, nella notte del 28 gennaio, hanno consentito al Paese di superare la fase di stallo in cui si dibatteva dal biennio 2012 – 2013: approvazione della nuova Costituzione e nomina del nuovo Governo.

La Costituzione è stata approvata con 200 voti a favore, 12 contrari e 4 astensioni con generale soddisfazione e poche riserve da parte dei salafiti e rappresenta un segnale di discontinuità nel mondo arabo.

Per la nuova Costituzione:

–       la sharia non è fonte legislativa pur restando l’islam religione di Stato, che si impegna a proteggere il “sacro”;

–       è riconosciuta la parità di genere davanti alla legge e nei Consigli eletti, anche se resta qualche disparità per l’asse ereditario che ancora garantisce solo la metà alla donna;

–       sono assicurati libertà di coscienza e di religione e la neutralità delle moschee.

Meno entusiasmo ha suscitato il Governo affidato a Mehdi Jomaa,

Mehdi Jomaa

Mehdi Jomaa

voluto dagli islamisti ma non approvato dall’opposizione che lamenta anche la limitata presenza delle donne, solo tre sui 29 componenti di un Esecutivo con 22 Ministri e 7 segretari di Stato. Ancora meno gradita è la nomina a Ministro dell’interno di Olfa Yousef, unica conferma del precedente Governo del dimissionario Alì Laarayedh. Ministro al quale l’opposizione addebita la responsabilità di non aver evitato l’assassinio di due leader del Fronte laico: Chokri Belaid nel febbraio 2013 e nel successivo luglio il deputato ed ex segretario del Partito Popolare Mohamed Brahimi. Motivo per il quale il Fronte Popolare voterà contro il Governo.

Come ha fatto la Tunisia ad arrivare a questo risultato?

Piccolo Stato, quasi privo di risorse energetiche, in una posizione geografica non appetibile da interessi stranieri, ha dato avvio alle rivolte che hanno attraversato l’Arco Mediterraneo da Rabat a Lakatia fino alla penisola araba dalla fine del 2010 e tuttora non concluse.

Dopo la fuga di Ben Alì in Arabia Saudita nel gennaio 2011, la Tunisia ha dovuto affrontare lo scontro tra gli islamisti e laici riuscendo a svolgere nell’ottobre dello stesso anno libere elezioni che hanno premiato il Partito Ennahda vicino ai Fratelli Musulmani e vincitore della competizione con 98 seggi sui 217 dell’Assemblea Parlamentare.

Non potendo aspirare all’egemonia, Ennahda ha formato una coalizione di maggioranza con il Congresso della Repubblica ed Ettakol, due Partiti laici.

Ennahda

Ennahda

 

Nonostante la troika rappresentasse l’intera società, restavano insoluti due problemi, che nel tempo si sono aggravati:

–       l’aggressività dei salafiti verso i laici non sempre contrastati sul piano religioso e legale da Ennahda;

–       l’incapacità del Governo sul piano socio-economico con ampi settori della popolazione senza lavoro e  senza speranze fino a costituire il retroterra per una spirale di violenza con il rischio di sfociare nel fondamentalismo jihadista.

Le manifestazioni contro il Governo, ritenuto ostaggio dei salafiti radicali, si sono susseguite per tutto il 2012 con scontri tra le varie componenti sociali e fra queste e la Polizia, fino all’uccisione dei leader laici, quando gli scontri sono diventati sempre più duri sfociando anche in conflitti armati tra fazioni opposte.

L’elemento di discontinuità che ha consentito a Tunisi di non cadere nel baratro libico e nell’autoritarismo egiziano è stato il sussulto delle forti componenti sociali.

Alla troika di comando si è opposto quello che può definirsi il “quartetto”: l’Unione Generale tunisina del Lavoro, l’Organizzazione Tunisina dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato, l’Ordine degli Avvocati e la Lega Tunisina dei Diritti Umani.

Le formazioni – con l’appoggio anche di Ahlen Belha, già Presidente dell’Associazione Tunisina delle donne democratiche – sono state in grado di guidare il dialogo nazionale coinvolgendo tutte le forze politiche laiche e no. E hanno elaborato una road map, che, pur con tempi troppo lunghi per le urgenze date, è riuscita a pilotare il quadro politico verso: dimissioni del Governo di Ennahda; presentazione della nuova  Costituzione, ferma dal 2012; nomina del nuovo Premier.

L’attuale posizione di Tunisi è stata possibile per almeno cinque fattori essenziali.

In primo luogo l’esercito tunisino con pochi militari, scarsamente politicizzati e poco armati è rimasto fermo dall’inizio della rivolta. Inoltre, la Polizia e il debole apparato securitario di Ben Alì era sufficiente a un Governo tecnico e corrotto senza precisi riferimenti religiosi e ideologici. Terzo, la rivolta ha eliminato l’élite del vecchio partito unico ma ha potuto lasciare intatti burocrazia e Polizia che non facevano parte del regime e potevano contribuire a mantenere un’accettabile stabilità. Poi, è stato anche possibile rimettere in moto le strutture istituzionali e legislative presenti sotto il precedente regime ma mai attuati. Ultimo ma non in ordine d’importanza, non vi sono state interferenze esterne.

Permangono criticità sulla tenuta dei salafiti, scontenti del dettato costituzionale e in attesa che la definizione di “sacro” all’articolo 6 della Costituzione, possa essere il più ampio possibile. Non meno problematica è la posizione del Fronte Popolare che non solo si opporrà al Governo ma non defletterà dalla ricerca degli assassini dei suoi leader.

Il ritorno di uno Stato autoritario appare poco possibile…almeno allo stato attuale.

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