AFGHANISTAN. GUERRA CONTINUA E SPERANZE DI PACE

AFGHANISTAN. GUERRA CONTINUA E SPERANZE DI PACE

Herat...

Herat…

Ripubblicazione di un articolo cancellato per errore ma che presenta interessanti elementi di analisi. Siamo nel 2014. L’anno passato era stata discussa una fase di transizione per il passaggio della sicurezza dalla Nato all’Esercito e alla Polizia locale, di cui una parte addestrata proprio dagli italiani. Un’analisi di Aldo Madia  pubblicata precedentemente da rileggere.

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini 80px-Emblem_of_Afghanistan.svg

Il 24 giugno 2013 a Kabul il Presidente afghano Hamid Karzai ha incontrato l’inviato speciale USA per Afghanistan e Pakistan James Dobbins per discutere della V “fase di transizione” (2014) che prevede il formale passaggio della gestione della sicurezza dalla NATO all’Esercito e alla Polizia locale, responsabile del 90% delle operazioni militari (dal 18 giugno), e la riduzione delle truppe USA da 68 a circa 10 mila militari nonché la sensibile diminuzione degli altri contingenti con la ripresa del controllo totale del Paese da parte di Kabul dopo il dicembre 2014.

Hamid Karzai

Hamid Karzai

 

Nel colloquio dovrebbero essere specificati siti e numero delle principali basi USA/(NATO destinati a restare nel Paese per contribuire alla formazione delle Forze di Sicurezza afghane e alla ricostruzione, per la quale è previsto l’accrescimento dello specifico Fondo che ha già speso oltre 20 mld USD.

Il colloquio, però, è stato focalizzato soprattutto sulla reazione del Presidente Karzai per l’imbarazzante iniziativa USA dopo l’annuncio (18 giugno) dell’apertura di un Ufficio Politico dei talebani in Qatar (attesa dal marzo 2012).

Lo stesso giorno (18), infatti, mentre veniva diffusa la notizia che un raid NATO avrebbe ucciso tre minori nel distretto di Baraki Barak, esponenti statunitensi anticipavano ai media  imminenti negoziati tra loro e i talebani.

Il giorno dopo, il Presidente afghano decideva di interrompere i colloqui con gli USA sull’accordo del “partenariato strategico” (ruolo e status del residuale contingente USA dal 2015) e in una serie di colloqui telefonici con il capo della diplomazia statunitense ne stigmatizzava le dichiarazioni comportanti la sua delegittimazione e il riconoscimento de facto dei talebani – che nella sede di Doha avevano issato la bandiera dell’ “Emirato Islamico afghano” – in seno alla Comunità Diplomatica Internazionale.

Non mancava Karzai di sottolineare come il movimento avesse sempre dichiarato di voler parlare solo con gli afghani, senza interventi di terzi sino al completo ritiro degli “stranieri” dal Paese. Dichiarazione più volta ribadita dai talebani anche se in seno all’ “Alto Consiglio per la Pace” afghano” (formato da 80 membri, è stato istituito nel 2010 da Karzai) siedono esponenti da sempre ostili ai talebani e in particolare Salahuddin Rabbani, figlio di Burhanuddin, ex Presidente dell’Afghanistan e leader del Partito Jamiat-e-Islami, assassinato nel settembre 2011.

Di fatto, l’incontro con i talebani, prospettato intempestivamente dagli USA (previsto il 20 giugno con la partecipazione dell’inviato speciale Dobbins), non s’è svolto anche perché preceduto dall’intervista rilasciata all’Agenzia “Ap” dal portavoce dei talebani, Sohail Shaheen, che, fra le condizioni per l’inizio negoziale, includeva la richiesta della scarcerazione di cinque militanti detenuti a Guantanamo  per farne  scambio con il sergente americano Bowe Bergdahl, sequestrato nel 2009. Lo stesso portavoce avrebbe precisato tre giorni dopo in un’intervista televisiva all’emittente qatarina “Al Jazeera”  che la (eventuale) fase negoziale sarebbe stata accompagnata dal prosieguo della lotta armata sino al ritiro di tutte le truppe straniere nel Paese. Neppure la conferenza stampa sul negoziato di pace prevista dal Presidente afghano – presumibilmente con lo stesso Dobbins – per la mattina del 25 ha avuto luogo.

Piccoli afgani vicino a Herat

Piccoli afgani vicino a Herat

All’alba di quel giorno, infatti, nel distretto di Shash Barak un gruppo di 8 guerriglieri talebani ha assaltato il complesso super protetto  comprendente il palazzo di Karzai, il Quartier Generale della NATO, il Ministero della Difesa, l’Ambasciata USA e l’Hotel Ariana dove alloggiavano per l’occasione agenti della CIA.

L’attacco – nel corso del quale sono morti gli assalitori e tre guardie di sicurezza, secondo il Ministero dell’Interno mentre i talebani dichiarano di aver ucciso alcuni agenti americani – segue una lunga serie di operazioni della guerriglia, tra le quali le più eclatanti sono state: a giugno, gli attentati all’aeroporto internazionale di Kabul, alla Corte di Giustizia e l’agguato a Farah al convoglio italiano nel corso del quale è rimasto ucciso il capitano italiano Giuseppe La Rosa, 53° vittima militare dal 2004; a maggio, l’esplosione a Farah di un ordigno al passaggio di un convoglio italiano (2 feriti), l’attacco nel centro di Kabul alla foresteria di fronte agli uffici della “Missione delle Nazioni Unite in Afghanistan” (UNAMA) con sei feriti tra cui la funzionaria italiana Barbara De Anna, successivamente deceduta per le gravi ferite riportate.

Gli attentati degli ultimi due mesi rientrano nella “campagna di primavera” annunciata dai talebani il 27 aprile e che ha fatto registrare – secondo l’ ANSO, organizzazione sui dati della sicurezza delle ONG in Afghanistan – un incremento del 47% (nei primi 4 mesi del 2013) rispetto all’anno precedente con un aumento (nei primi 3 mesi del 2013) del 30% del numero delle vittime civili (475 morti e 872 feriti) con una preoccupante previsione per un esponenziale aumento degli attacchi.

La Shura di Quetta – non certo la sola a decidere la strategia combattente ma certo la più nazionalista – sta coerentemente mirando agli obiettivi di maggior valenza politica e mediatica per evidenziare l’inconsistenza del comparto sicurezza afghano – fra i quali ha infiltrato militanti pronti ad eseguire operazioni terroristiche contro  gli ignari commilitoni –  e il rifiuto della presenza straniera che ha causato la perdita dell’ “Emirato Islamico” faticosamente realizzato. E restando sull’offensiva intende perimetrare l’agenda negoziale traendone il maggior vantaggio possibile.

L’estensione (aprile 2013) della missione ISAF (dal 2015 “Resolute support”) da parte di Bruxelles non è certo sfuggita ai talebani la cui disponibilità negoziale postula serie pre-condizioni: ritiro delle truppe straniere; inclusione nell’agenda dello scambio di prigionieri; ripresa di un ruolo decisionale; allontanamento dei “signori della guerra” con abbattimento dei privilegi e della pervasiva corruzione che alimentano incontrollati.

In un quadro regionale che vede l’Afghanistan circondato da Pakistan (Sud), Iran (Ovest), Turkmenistan e Uzbekistan (Nord), Cina e India (Est) e occupato militarmente dall’ISAF – la coalizione occidentale a guida USA – si ritiene che a breve – medio termine il conflitto proseguirà a bassa intensità secondo lo sperimentato modulo delle guerre asimmetriche senza vinti né vincitori in un Paese in cui si faranno sempre più chiare le mire della coalizione occidentale e il gruppo – altrettanto differenziato – dei Paesi asiatici, tutti orientati a partecipare alla “valorizzazione” delle ingenti risorse energetiche e minerarie dell’Afghanistan.

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