La nuova Costituzione tunisina ed egiziana: primi frutti della Primavera Araba.

La nuova Costituzione tunisina ed egiziana: primi frutti della Primavera Araba.

80px-Coat_of_arms_of_Tunisia.svg80px-Coat_of_arms_of_Egypt_(Official).svgUna interessante analisi sulla attuale situazione egiziana e tunisina. Il Mediterraneo ha urgente bisogno di stabilità soprattutto in Egitto, da sempre stato guida nel settore strategico.

Il Direttore Scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

Da più di tre anni la Tunisia e l’Egitto, seppur con diverse gradazioni, vivono in una sorta di simbiosi a distanza con una concatenazione di avvenimenti “sorprendentemente” speculari – anche se sfociati e sviluppati in tessuti sociali diversissimi – in cui il primo Paese ha sempre svolto il ruolo di apripista.

Proprio dalla Tunisia, con il gesto estremo del giovane Mohamed Bouazizi, immolatosi nel dicembre del 2010 per protestare contro la brutale violenza della polizia, si è alzato il “vento” della Primavera Araba che ha spazzato via il Presidente Zine El-Abidine Ben Ali. Lo stesso “vento”, a distanza di una manciata di mesi, ha sradicato dal potere il Rais Hosni Mubarak in Egitto.

Il vento della rivoluzione ha proseguito la sua corsa in Libia e, seppur con meno forza, in Iraq, Yemen, Siria, Bahrein, Giordania, Gibuti, Mauritania, Oman, Sudan, Arabia Saudita, Marocco e Kuwait.

Dopo la cacciata di Zine El-Abidine Ben Ali e di Hosni Mubarak, superata una prima fase di gioia e di speranza, sia la Tunisia sia l’Egitto si sono ritrovati, dopo le prime elezioni elettorali “libere”, calati in una realtà “islamista”.

E’ il destino di tutte le rivoluzioni che, per loro natura, sono imprevedibili nel nascere, poi però si trasformano in  processi molto lenti, tragici nel loro sviluppo che non è mai lineare, bensì costellato di ostacoli, passi indietro e false partenze.

Prendo in prestito le parole di una delle più grandi filosofe europee, Hanna Arendt, che descrive una rivoluzione come  “…..una Fata Morgana nel deserto che appare sempre nella maniera più inaspettata. Non si può assolutamente predire quando verrà e ci sorprende sempre con la sua spontaneità…”.

Il partito Ennahda in Tunisia e i Fratelli Mussulmani in Egitto hanno tentato di islamizzare i rispettivi paesi riconducendoli alla sharia, imponendo un’agenda di governo che ha esacerbato gli animi ed ha acuito le ingiustizie, le tensioni e le contraddizioni.

In questa fase però si evidenzia la diversità d’approccio dei due partiti islamisti: quello tunisino più aperto al dialogo e conciliante con l’opposizione, quello egiziano guidato da Morsi intransigente e sordo a tutte le richieste delle altre componenti della società civile.

I risultati sono noti: in Tunisia gli islamisti, pur non essendo più una forza di governo, sono presenti e attivi e mantengono un notevole sostegno popolare, mentre i Fratelli Musulmani sono ripiombati nella clandestinità dei tempi di Sadat, banditi e considerati alla stregua di terroristi.

A conti fatti, le forze politiche tunisine si sono dimostrate sagge e lungimiranti nel cercare il dialogo per evitare lo scontro, quel muro contro muro che purtroppo ha insanguinato – e continua a insanguinare – le piazze egiziane.

Cartina di tornasole del diverso approccio è stata la ri-scrittura della “nuova” Costituzione. Mentre i Fratelli Musulmani in Egitto hanno promulgato una Costituzione – peraltro già sostituita nel volgere di un anno – in cui la maggioranza degli egiziani non si riconosceva, il partito islamico in Tunisia ha accettato il dialogo, ha ascoltato le diverse voci della società civile e ha modulato le sue posizioni.

Per questo motivo, oggi molti analisti parlano di un modello “tunisino”, l’unico che in qualche modo è riuscito  a trovare una formula politica di compromesso ed evitare il caos degenerativo.

Definire la Tunisia un “modello”, magari da esportare in altri paesi, ritengo sia esagerato, piuttosto un “laboratorio” poiché è -e resta- un Paese in equilibrio precario sia dal punto di vista economico che sociale, e la questione del radicalismo islamico è ancora aperta.

Va riconosciuta però la lungimiranza politica degli islamisti che, rinunciando a guidare il governo, hanno favorito la formazione di un esecutivo tecnico di transizione sino alle prossime elezioni previste entro la fine di questo 2014.

Una lungimiranza che ha avuto degli effetti tangibili anche sulla bozza della nuova Costituzione, che è stata ratificata dal Parlamento senza stravolgimenti, altro esempio di come il compromesso e le discussioni costruttive possano portare a dei risultati.

Il primo articolo della Costituzione sancisce che la Tunisia è una Repubblica araba di religione islamica, punto! Non c’è alcun riferimento alla sharia quale fonte primaria del diritto. Segno importante di un tentativo di ridimensionamento del ruolo della religione all’interno della società e nella vita – anche privata – dei cittadini.

Molto importante l’articolo venti – innovativo e per alcuni versi rivoluzionario – che sancisce la parità di diritti e doveri tra gli uomini e le donne, senza discriminazione alcuna. “Uguaglianza” piena tra i sessi, non una semplice “complementarietà” tra uomini e donne, come inizialmente voluto dagli islamisti.

La sostituzione del termine “complementarietà” con “uguaglianza” ha indubbiamente una valenza importante anche se, come rimarcato sia da Amnesty International sia da Human Rights Watch, rimane un articolo con una formulazione generica e privo di contenuti.

La politica del compromesso ha raccolto frutti anche in molti altri articoli della Costituzione, tra cui quello riguardante la criminalizzazione della tortura e la difesa della libertà d’opinione, d’espressione e d’informazione.

Anche l’Egitto ha una nuova bozza di Costituzione post Fratelli Musulmani che deve essere ratificata e che nei giorni scorsi è stata sottoposta ad un referendum popolare.

Referendum non certo indolore nel suo svolgimento, si sono contati morti, feriti e centinaia d’arresti in una società tremendamente divisa.

Ha vinto, con una straripante maggioranza superiore al 95% dei 20 milioni di egiziani che si sono recati ai seggi, il “si” a favore delle modifiche apportate alla Carta; ha vinto il generale al Sisi – da molti definito il “nuovo Nasser” e candidato alle prossime elezioni presidenziali – e la linea dura dei militari contro i Fratelli Musulmani.

Significativa la prima dichiarazione ufficiale del Capo del Governo ad interim Hazem Beblawi secondo il quale ….la vittoria del si alla Costituzione non segna solo il sostegno al testo costituzionale, ma è la consacrazione del rifiuto agli atti di sabotaggio e al terrorismo…“, ed il portavoce dell’Esercito ha enfaticamente sentenziato “…gli egiziani sono la prima popolazione libera della storia…”.

In altre parole, con il referendum è stato legittimato l’atto di forza dell’Esercito che il 3 luglio del 2013 ha destituito il Presidente Morsi e che, pertanto, a seguito del plebiscito elettorale, non è stato percepito come “golpe”, bensì come intervento per esaudire la volontà popolare dei milioni di manifestanti.

La Costituzione dell’era Morsi aveva ottenuto il 64% dei voti a favore, con una percentuale d’affluenza inferiore rispetto a quest’ultima tornata attestata al 40%, una discreta percentuale a queste “latitudini”, ma molto inferiore a quanto preannunciato ed auspicato.

Non sono andati a votare i sostenitori della Fratellanza Musulmana e nemmeno i giovani -gli artefici della rivoluzione del 25 gennaio 2011 – che non si riconoscono nei due poteri forti presenti in Egitto: i Fratelli Musulmani e i militari.

Ha vinto, soprattutto, la voglia della maggioranza degli egiziani di tornare a vivere in un Paese stabile, sicuro e senza violenza, stanca delle continue manifestazioni di piazza e sit-in di protesta che bloccano ogni possibilità di ripresa economica (in primis il turismo).

Egiziani consapevoli di dover pagare un “prezzo molto alto” nel riaffidare nuovamente l’Egitto ai militari – da secoli i veri padroni del paese – ad oggi considerati il male minore.

Rispetto alla Costituzione dell’era Morsi, la nuova Carta costituzionale egiziana ha sì delle differenze, di certo però non la si può definire “rivoluzionaria”, se comparata a quella tunisina.

Il controverso articolo due che definisce il principio della Sharia quale fonte primaria del diritto non è stato modificato di una virgola; in compenso – e per fortuna delle minoranze religiose, soprattutto copta – è stato cancellato in toto l’art. 219 che specificava in dettaglio tale principio.

In realtà (come già analizzato in un precedente articolo), la nuova Costituzione egiziana ha molte affinità con quella vecchia redatta nel 1971 che ha segnato l’epoca di Mubarak; di certo è meno innovativa nella sua formulazione, meno avanzata e meno moderna rispetto a quella tunisina.

E’ un primo passo – si spera – verso una comunque lenta e graduale democratizzazione della società egiziana che, nei prossimi mesi e nel segreto delle urne, sceglierà prima il nuovo Presidente e poi i componenti del nuovo Parlamento, come annunciato dal Presidente ad interim  Adly Mansour domenica 26 gennaio.

L’augurio è che la Tunisia, ed anche l’Egitto seppur con molta più fatica, forti di una nuova Costituzione, in questo 2014 possano proseguire sulla strada del rinnovamento democratico verso una società con meno disparità, dimostrando che le rivoluzioni sono servite a qualcosa, non solo a desacralizzare e cacciare i capi, non solo a bloccare i fondamentalismi, ma a smuovere gli animi e le coscienze.

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