Una interessante e approfondita analisi dei rapporti fra la Giordania e Hamas in questo difficile momento, di Paolo Brusadin
Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini
La guerra in corso tra Israele e Hamas ha suscitato la forte reazione del mondo intero, con un impatto divisivo e a volte partigiano.
Ciò che accumuna i vari punti di vista però è la forte preoccupazione per le conseguenze e implicazioni imprevedibili che questa guerra potrà assumere.
Noi italiani e occidentali ci sentiamo sicuri, protetti ed a distanza di sicurezza da quelle terre, mentre tutti i paesi del Medio Oriente sono in subbuglio, basti pensare al Libano, all’Egitto, alla Siria, all’Iraq, all’Iran, al Qatar, all’Arabia Saudita.
Anche il regno Hashemita di Giordania, radicato sulla sponda orientale del Giordano, è in fibrillazione per quanto sta succedendo a Gaza e non c’è da stupirsi giacché la questione palestinese (da sempre in Giordania sono presenti numerosi profughi) è centrale nell’opinione pubblica giordana. Una terra che si è fatta carico dei rifugiati palestinesi nel 1948 e nel 1967 ma anche degli esuli iracheni e siriani.
Pertanto il richiamo del proprio ambasciatore in Israele da parte delle Autorità giordane sin tanto che ai palestinesi non sarà consentito il pieno accesso agli aiuti umanitari, è stata una mossa attesa, quasi scontata. Ciò non significa che la Giordania si sia schierata a favore di Hamas, al contrario, giacché quest’organizzazione terroristica (e non di resistenza come si qualifica), di certo non gode di popolarità e, per di più, non può svolgere attività politica attiva.
Ciò che preoccupa è la presenza in Giordania di frange vicine a Hamas degli Ihwan Muslimun, dei Fratelli musulmani.
Nel frattempo, molti cittadini giordani si sono riversati nelle strade delle principali città per manifestare a favore dell’indipendenza dei palestinesi e per chiedere la fine della guerra.
Permane però la preoccupazione per quello che potrebbe succedere, una nuova Nakba, una seconda tragica forzata espulsione dei palestinesi da parte degli israeliani verso proprio la Giordania, da sempre considerata al Watan el Badli, una sorta di patria alternativa, di riserva.
La Giordania da molti lustri sostiene la creazione di due Stati distinti: Israele ed uno Stato per i palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, così come si è prodigata a svolgere il ruolo di custode dei luoghi santi musulmani e cristiani a Gerusalemme.
Si ricorda che la Giordania ha storici legami con la Cisgiordania, avendone avuto il controllo diretto dal 1948 sino al 1967 quando subentrò Israele, con l’accettazione, da parte del Re Hussein, di porre fine a qualsiasi rivendicazione sul territorio. Da quel momento in poi, i legami con l’Autorità Palestinese si sono sempre più sviluppati, a scapito di Hamas.
La posizione del Re Abdullah II è chiara, ribadita nel corso del vertice per la Pace svoltosi al Cairo. Parlando volutamente in lingua inglese e non in arabo, avendo come principali interlocutori gli occidentali, ha ribadito che l’evacuazione forzata dei Palestinesi, sia verso l’esterno ma anche interna dal nord al sud, rappresenta una linea di demarcazione che per la Giordania non può essere superata.
Inoltre ha chiosato che le vite dei palestinesi valgono meno di quelle israeliane e che i diritti umani non sono universali ma hanno dei confini precisi dovuti alla razza o alla religione. Stessi concetti espressi anche dalla Regina Rania, d’origine palestinese, che ha rilevato un silenzio assordante da parte degli occidentali.
Le autorità giordane stanno aiutando la popolazione di Gaza attraverso gli aiuti umanitari. Qualche giorno fa un aereo della Royal Air Force, in collaborazione con gli Emirati Arabi Uniti ed il Qatar, ha paracadutato per la seconda volta aiuti medici sull’’ospedale da campo giordano Gaza/76 che si trova a Tal al-Hawa, a sud-ovest di Gaza. L’ospedale è stato aperto nel 2009 per fornire servizi medici e terapeutici ed ha una capacità di 50 posti letto, con circa 200 operatori tra medici e paramedici.
La Giordania in questo tragico frangente è estremamente preoccupata per un’escalation della situazione e per un effetto domino incontrollato che potrebbe sfociare in una guerra regionale, coinvolgendo vari attori statuali.
Lo spettro di un aumento dell’influenza iraniana in Iraq e in Siria, o peggio ancora un coinvolgimento diretto degli Ayatollah, aleggia nei pensieri dei governanti giordani. Così come il rischio di vedere gli Hezbollah attivarsi in Libano o gli Houthi nello Yemen. In questo scenario la Giordania si troverebbe giusto nel mezzo, costretta a difendersi da un fuoco incrociato sovrastante.
Ecco perché recentemente il Regno di Giordania ha chiesto il sostegno militare degli Stati Uniti d’America per la fornitura di varie batterie di difesa missilistica Patriot.
Gli sforzi giordani sono concentrati nella ricerca di una rapida ed efficace soluzione politica, piuttosto che affidarsi a quella militare, foss’anche la creazione di una forza d’interposizione regionale. La paura è che continuare a lasciare la parola alle armi finirà per allargare il conflitto, con il rischio di mettere in discussione i già fragili accordi di pace tra Israele e i Paesi arabi, compreso quello con la Giordania.
La strada maestra è dunque ripartire dall’iniziativa di pace araba presentata nel corso del vertice di Beirut nel 2002 emalamente naufragata, che prevedeva un completo ritiro israeliano dai territori occupati fino ai confini del 4 giugno 1967, includendo le alture del Golan e i territori del Libano del sud.
Altresì, si raccomandava un’equa soluzione del problema dei profughi palestinesi sulla base della risoluzione 194 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Infine, c’era la proposta della creazione di uno Stato palestinese indipendente sui territori palestinesi occupati nel 1967 della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, con capitale Gerusalemme Est.
Come contropartita, gli Stati arabi avrebbero considerato concluso il conflitto arabo israeliano e firmato una giusta pace con Israele, garantendo nel contempo la sicurezza a tutti gli Stati della regione.
È passato un ventennio da allora e riprendere in mano una bozza di accordo è doveroso e necessario, non solo per il Medio Oriente.
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