Nassirya. Una testimonianza

Nassirya. Una testimonianza

                                                                                                                    …Una testimonianza

   A un anno da quel giorno le luci e le ombre di Nassiriya possono continuare a turbare l’animo di chi era lì, di chi ha continuato a restare lì, e non solo per dovere, di chi è rimasto lì anche se soltanto con la mente con il cuore e siamo in molti. E di chi avrebbe voluto tornarci ad ogni costo e siamo ugualmente in molti.

   Quel novembre era iniziato il Ramadan, il mese sacro e dedicato al digiuno diurno dei musulmani i credenti: la sera, all’imbrunire, la voce modernamente amplificata del clero sciita che conduceva la preghiera risuonava fortissima nelle tue basi, Libeccio e Maestrale, una di fronte all’altra sulle rive del lento e, solo a volte maestoso Eufrate.  Preghiera, ma anche predicazioni: si sentiva dal diverso ritmo delle parole. Ne capivo alcune, ma non ero in grado di afferrare il senso del discorso, che però potevo supporre ardente e trascinante. Per alcuni quelle voci erano “angoscianti” ma per me, che ho vissuto in mezzo a una popolazione sciita per quasi un lustro, non lo erano anche se intuivo una latente pericolosità.

   Al tramonto, le luci nascondevano lo squallore della città e di fronte a Base Libeccio, Base Maestrale era illuminata e viva. Così la ricordo nella nell’ultima sua sera di vita, l’11 novembre, mentre dopo cena, unico civile in mezzo ai militari, guardavo l’Eufrate, ragionando su quello che avevo visto nella giornata, accompagnando ad esempio il capitano medico dei Carabinieri in una delle sue visite fuori città, quale soccorso sanitario, itinerante in villaggi che non disponevano nemmeno dei medicamenti più semplici.

   Ventiquattro ore dopo, in una sera livida come le nostre menti, le luci di Base Maestrale si erano spente per sempre: le foto elettriche illuminavano la palazzina distrutta e lo sguardo era fisso su quell’angolo di mondo violentato.

   Affrontare le ore seguenti, sapendo razionalmente che era successo, ma rifiutando ancora emotivamente di crederci, la necessità e la volontà ferma di continuare a lavorare.  iI Reggimento mostrò una coesione interna e una forza di reazione notevoli mentre il ponte che univa le due basi era stato chiuso e “cinturato”, i colleghi e gli amici di coloro che erano morti nell’attentato provvedevano, nella base devastata, a tutte quelle particolari incombenze che seguirono avvenimenti di questo tipo. Ancora di più avrebbe dimostrato carattere riprendendo subito le attività previste, nonostante l’attentato, e ottenendo risultati estremamente lusinghieri, addirittura migliori di quelli conseguiti prima del 12 dicembre.

   Nella Base Libeccio, anch’essa ferita dall’attentato, non esistevano più finestre, gran parte delle porte erano state divelte, così come moltissimi infissi. Alcune schegge di vetro si erano conficcate nel muro come pugnali lanciati a velocità. Nel toglierle, pezzetti di quel muro si staccavano e la mente subito visualizzava uno di questi proiettili in corsa. Fortunosamente nessuno di essi aveva avuto un effetto mortale, solo perché non aveva trovato un essere umano sul suo traguardo. Alcune schegge avevano ferito, peraltro in modo superficiale, delle persone: il pavimento lo testimoniava in diversi punti con macchia di sangue.

   Il mattino dopo, sotto un cielo azzurro come le cupole delle moschee sciite, le orbite vuote di Base Maestrale, quegli spazi, ormai aperti, trapassavano a mò di spade l’atmosfera,.Ricordo vivo e costante di una grande tragedia che avrebbe originato una manifestazione di solidarietà nazionale quale da tempo non si riscontrava. E di fronte ad un pugno di terra raccolta lì, tra le macerie della palazzina, terra che qualcuno, intuendo un desiderio non espresso per pudore dei sentimenti ti ha portato, tanti ricordi ora riemergono.

   Ricordi ad esempio di un momento alquanto interessante, vissuto poi con un sentimento irrazionale di colpa per essere stata particolarmente serena durante una visita di lavoro, accompagnata dai Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale presenti su un sito archeologico, per vedere quale tipo di protezione venisse data dai nostri specialisti al patrimonio culturale iracheno: interesse di ricerca e, allo stesso tempo, una grande emozione nel calcare con i piedi un luogo, chiamato “la biblioteca”, ove si rinvengono continuamente tavolette con iscrizioni Sumere, intere o spezzate, così,  anche senza scavare. E la mente in quel momento andava alla Mesopotamia, all’arte assiro-babilonese e omayyade, alla ricchezza e alla cultura di quei tempi, paragonandola alla odierna situazione di povertà, di sottosviluppo, nonostante questo Stato sia tra i più forti i produttori di petrolio da lungo tempo e quindi tra i più ricchi di quella regione strategica.

    Un cielo limpido e le spiegazioni dei due marescialli specialisti nel settore, una temperatura ideale sotto un sole ancora mite. Un’ora: le 10:38 locali, una foto scattata proprio in quei minuti – le attuali macchine fotografiche digitali ricordano anche questi particolari -, lontano da dove si stava consumando un momento di grande impatto emotivo e storico, un momento tragico, per 19 famiglie e un’intera popolazione. Il rientro poco dopo la scoperta di quanto era accaduto, il respiro che manca è la percezione immediata che questo è un evento che muterà molte cose: ha colpito chi non è certo andato in terra irachena per combatterla, ma per aiutare un paese poverissimo in un momento di grande instabilità e difficoltà; ha colpito un popolo intero, l’italiano, che ben conosce la guerra per averla sofferta più volte e che cerca di appoggiare la comunità internazionale a livello istituzionale e privato. E’ proprio perché consci di questa loro particolarità, gli italiani sono rimasti quasi increduli di fronte a quello che è successo ai propri militari in Iraq.

   La missione dei Carabinieri, composta da un reggimento MSU integrato, nella Italian Joint Task Force, era iniziata tra luglio e agosto del 2003: si stava attuando il primo avvicendamento, e solo 48 ore dopo l’attentato, ci sarebbe stato anche l’avvicendamento tra i Comandanti del Teggimento; era previsto per il 14 dicembre, nella mattinata. Avvenne il giorno dopo, 15 novembre.

   Molto lavoro era già stato fatto, proprio nel senso voluto, dalla presenza dei militari italiani nella regione del Dhi Qar, sulla quale essi hanno la competenza: una regione assai povera, dove mancano alcune elementari caratteristiche della vita moderna, quali un sistema di fognature. Senza dimenticare la situazione sanitaria, molto difficile, dove la precarietà è già nella medicina di base. Gli ospedali di Nassiriya e dintorni sono in una situazione particolare difficile, che ovviamente non risale solo al periodo più recente: inutile dire che le sanzioni inflitte all’Iraq negli anni passati hanno di certo avuto poco effetto sulla classe dirigente e cinicamente dominante, forse rendendola ricca ancora di più, mentre la popolazione irachena, soprattutto quella sciita, ha pesantemente sofferto.

   I Carabinieri hanno scortato convogli umanitari, hanno mantenuto ordine tra fazioni contrarie, agendo molte volte come forza di interposizione. Sono stati spesso chiamati dalla popolazione per dare sicurezza: hanno fornito aiuti agli ospedali. Hanno trovato armi e munizioni in quantità e hanno identificato e arrestato criminali agitatori, consegnandoli alle autorità locali. Hanno riorganizzato e addestrato le polizie irachene, nel quadro della generale ricostruzione delle istituzioni.

   Quando, forse molto lontano n’el tempo, la situazione sarà migliorata non solo in Iraq, ma nei rapporti tra cultura occidentale e cultura arabo-musulmana, la gente di Nassiriya ricorderà quanto è stato fatto dagli uomini ‘in blu, la loro umanità e il loro sacrificio, così come quello degli altri militari e civili che sono morti in quell’occasione: è un auspicio e una forte speranza, perché solo questo ci permette di accettare quel 12 novembre 2003.

Maria Gabriella Pasqualini

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